domenica 8 giugno 2014

Una gita al fiume




































La religione gli aveva fornito in anticipo le risposte a tutte le domande che non aveva rivolto direttamente a se stessa, l’aveva rinchiusa nei suoi sessantotto chilogrammi di carne e sudore, l’aveva avvolta di stracci di seconda mano e gli aveva imposto un mutismo che difficilmente riusciva a rompere. Quando aveva scelto l’università fuori dalla sua città, ad ospitarla c’era stato un convitto gestito da carmelitane e frequentato dalle pendolari dell’istruzione. C’era un frigorifero per piano, ogni frigorifero aveva i reparti divisi in otto sezioni, come otto erano le celle, in cui vi erano otto letti, con otto crocifissi in finto legno, dotate di otto interfoni per chiamare la portineria. In una sala al pianterreno c’era un televisore al tubo catodico che aveva annerito il muro bianco su cui scaricava da anni le sue radiazioni. Sul televisore c’era un crocefisso, c’era un crocefisso anche sul telefono, sul frigorifero, sul forno a microonde e sulla radio; in quell’ospizio il signore vegliava sulla presunzione dell’uomo di migliorare la vita con gli aggeggi attaccati alla corrente. I programmi alla tv li si potevano scegliere, bastava prenotarli con una settimana d’anticipo. Quella sera era il suo turno, aveva chiesto di guardare Chi l’ha visto, sapeva che anche suo padre e sua madre, a chilometri di distanza, stavano sprofondando nelle poltrone con lo sguardo attaccato allo schermo per sbirciare le sciagure altrui. Il portone del convitto si chiudeva alle undici di sera, ma quella sera qualcuno trascinò all’interno delle mura un trolley arancione con dieci minuti  di ritardo rispetto all’orario di chiusura. Ad accompagnare la ritardataria c’era una piccola suora filippina. A quell’ora non c’era spazio per presentazioni e saluti, così la nuova ragazza scomparì su per le scale insieme alla sua accompagnatrice. Il programma alla tv era finito, quando la luce nella scatola si spense, lo sguardo di Rachele si posò sul crocefisso condannato al rogo delle radiazioni del televisore. Nel convitto c’era il silenzio delle notti passate a dormire, le lampadine a risparmio energetico restavano accese il tempo necessario per attraversare i corridoi, un timer che non temeva di sostituirsi a Dio, decideva il tempo della luce in quel budello piastrellato che odorava di disinfettante. Sulla scrivania di Rachele c’erano i libri fotocopiati per l’esame di chimica. Il primo cassetto della sua scrivania aveva un doppio fondo, nel vano nascosto vi era stipato un pacchetto di sigarette, una cima di Orange Bud e delle forbicine. Quando si accese lo spinello era da poco passata la mezzanotte, la luce in camera era spenta e la grossa testa rossa della sua torcia le illuminava parte del volto. Dalla finestra usciva un fumo denso che prima si compattava in nuvole grasse e che poi si perdeva immediatamente nella crudeltà dei fattori atmosferici esterni. Ogni volta che fumava da sola pensava all’amore. Non sapeva esattamente cosa fosse, ma era innamorata dell’amore. L’erba gli permetteva di mettere da parte le paure, si sentiva quasi felice, ma a volte troppo felice da diventare subito triste. Nella testa gli si arrampicavano i pensieri che solitamente lasciava sotto la montagna del suo mutismo, gli arrivavano alla bocca ed era in quei momenti che sentiva il sapore dolce delle cose. Quando il fumo scappò via dalla finestra Rachele chiuse gli occhi e si addormentò senza svestirsi per risvegliarsi dritta come sempre il giorno dopo nell’aula magna della sua università.

Il professore era parzialmente accecato dal fascio di luce che il proiettore sparava verso lo schermo alle sue spalle, Rachele aveva riempito due pagine con numeri ordinati in colonne immaginarie. I suoi occhi facevano la spola tra il foglio di carta e il volto, illuminato per un sesto, del suo professore. In uno di questi intervalli si accorse che nel margine alto, a destra del suo quaderno, una scritta di color verde acido aveva interrotto l’ordine delle sue trascrizioni con un’inspiegabile: “vieni al fiume questo pomeriggio?” Gli occhi di Rachele si alzarono e trovarono il volto sorridente di una ragazza della sua età magra e senza seno. La rabbia per la scritta fuori luogo svanì quasi subito e non si accorse che quasi immediatamente dalla bocca gli uscirono le parole “Si, certamente”. 

Letizia aveva dei capelli biondi che si contendevano con la superficie argentata del fiume gli ultimi riflessi del tardo pomeriggio. Era l’unica a parlare, parlava e ascoltava i mugugni di approvazione di Rachele, faceva domande a cui si dava da sola risposte cordiali, parlava e sorrideva tanto da compensare il volto indurito della sua compagna di passeggiata. In quel periodo di giugno gli insetti sembravano aver metabolizato il caldo della primavera e traevano forza dall’arrivo imminente dell’estate. Flotte di moscerini si schiantavano sulle facce delle due ragazze. Quando giunsero al bosco appena oltre l’ultima curva del fiume Letizia si sedette sul tronco collassato di un albero di cui non riconosceva il tipo. Rachele si sedette al suo fianco fissando ipnotizata il movimento veloce delle sue labbra che trasformavano l’aria afosa di quella giornata in parole veloci e senza sosta. Bevvero qualche birra, poi Rachele rollò una canna. Letizia sorrise e quando vide l’erba e si strofinò le mani come se fosse dinanzi ad una bistecca. Fumarono e si abbracciarono, poi iniziarono a ridere. Dagli occhi di entrambe scendevano lacrime di gioia. Le mandibole si muovevano tendendo, con tutta la forza di cui erano capaci, i muscoli della faccia verso le orecchie. Le mascelle, gli zigomi le tempie gli dolevano per le risate. Erano piegate in due sull’erba per non incontrarsi con gli sguardi. Dopo qualche minuto non riuscivano a controllare cosa gli stava accadendo, non capivano il motivo per cui non gli era possibile fermarsi, non erano più divertite, erano terrorizzate, entrambe impaurite di morire dalle risate. Letizia impallidì, la bocca gli si chiuse e lentamente cadde a terra con la faccia riversa nello scolo della birra che stringeva nella mano destra. Rachele smise in quell’istante di ridere, sentì la sua ultima risata tra il ronzare degli insetti e per un attimo ne fu felice. Letizia era a terrà, Rachele fece fatica a riconoscerla, poi corse verso il fiume ma, proprio mentre si abbassava per passare sotto ad un ramo basso, ebbe come l’impressione di non ricordare il motivo per cui stava correndo verso l’acqua. Si sedette e inizio a parlare con se stessa a farsi delle domande, sperava di capire, comprendere perché quel tardo pomeriggio i suoi sessantotto chilogrammi di carne e sudore si stavano affannando in una corsa verso il fiume. 

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