giovedì 21 aprile 2016

Una lettera elettronica a Francesco




Ciao Francè in questo momento sto scrivendo un capitolo della tesi che parla del modo in cui funziona la nostalgia. A volte mi annoio e sopratutto la scrittura tecnica sembra come essere fine a se stessa e allora provo ad inventarmi qualcosa di diverso che poi non utilizzo per la tesi. Oggi ho provato a fare delle prove su alcuni ricordi nostalgici per capire in che modo un segmento di microstoria possa rientrare nella struttura di una storiografia più ampia. La memoria e in particolare quella nostalgica ha una serie di ricadute nella trasmissione storica. Solitamente la nostalgia è intesa come elemento negativo, si ha nostalgia di un tempo passato che, manco a farlo apposta, è sempre meglio di quello presente, un tempo in cui tutto andava bene e in cui - per motivi legati alla distanza e all'eliminazione dei piani temporali - la problematizzazione del vissuto e delle contingenze finisce per essere messa da parte. Ecco detto ciò vi sono, e non sono cose che ho inventato di sana pianta, ma che una studiosa di memory studies ha individuato, due tipologie di nostalgia. La prima è di tipo ristrutturativa e la seconda di tipo riflessiva. La prima è una nostalgia astorica e che è alla base di molti movimenti populistici e revisionistici. Per intenderci è la nostalgia dei "nostalgici di lui" (lui ovviamente è capoccione o baffone) un sentimento che ci fa credere che quando eravamo in quel tempo, un tempo che crediamo d'aver vissuto ma che in realtà non riusciamo a definire storicamente (per storicamente intendo mediante una ricostruzione storica fatta di analisi, spiegazione e racconto), tutto andava bene e che i treni arrivavano in orario e che la giustizia sociale era un dato certo e acquisito. L'altra invece, quella riflessiva, è una nostalgia che ci fa mettere in discussione il passato mediante una decostruzione del flusso della memoria. L'atto stesso di richiamare alla mente il ricordo – il vero procedimento di ricerca del materiale che vorremmo diventasse storico – non è finalizzato al rimpianto di qualcosa di perduto, ma è semplicemente la presa di coscienza che qualcosa di scomparso (il tempo passato è effettivamente passato e come ogni oggetto/soggetto storico non è presente ma evocabile solo mediante una ricerca dell'assenza) possa essere messo in discussione nuovamente. Per tornare a noi, per tornare a quello di cui parlavo in precedenza e per provare a capire come queste cose funzionano nella vita e nei modi di affrontare la vita delle persone che conosco meglio, mi sei venuto in mente tu. Credo che tu sia una persona che ha sempre pensato che l'atto del ricordo sia un atto riflessivo e non ristrutturante. Non sei come Peppe che invece rievoca e lo fa di continuo, i laghetti che una volta stavano sui regi lagni e gli animali che popolavano le campagne di Teverola come se negli anni settanta – gli anni in cui lui era un bambino – l'Indesit non esistesse e come se invece di ritrovarsi a fare la battitura dei fagioli su una delle bretelle sequestrate per camorra della Giugliano – Marcianise, lui i fagioli li andava a battere in un parco naturalistico che in realtà non è mai esistito. Ecco mentre scrivo forse dovrei scrivere anche a Peppe e dirgli che lui la nostalgia la usa in maniera ristrutturante, ma tu lo sai meglio di me, lui non ha nemmeno la posta elettronica e comunque è impossibile parlargli. Ma torniamo a noi, tu una volta, mentre eravamo alle elementari scrivesti un tema, mi ricordo che la maestra ci chiese di parlare di uno dei nostri familiari, o meglio, del familiare che consideravamo il nostro modello. Tu parlasti di Mimì e mi ricordo che concludesti il tema dicendo - scusa se la citazione non è proprio conforme all'originale, ma provo a citare a memoria: “lui mi piace è uno di quegli uomini che non dice mai 'ai mie tempi'”. Bhè io lo so che forse questo potrà suonarti un poco nostalgico, ma che vuoi farci, sembra quasi che a pensarle le cose poi uno po le diventa le cose che pensa. A presto. 








venerdì 19 giugno 2015

Facoltà di Biologia


































Quando ho iniziato ad usare i pantaloni con l’abbottonatura al posto della cerniera ero entusiasta. Pensavo fosse una sorta di passaggio alla maturità un rito di iniziazione con un forte connotato estetico in cui la complessità dell’operazione di chiudersi la patta aumentava esponenzialmente il piacere della propria corporalità in relazione alla banale semplicità offertami dalla cerniera lampo che avevo usato sino a quel punto. Io so che queste mie riflessioni sono, in un momento preciso della vita, passate nella testa di ogni essere umano ed è anche perché non credo che noi esseri umani dobbiamo essere accomunati da pensieri comuni, ma distrutti da contraddizioni laceranti che mi sono messo a pensare che forse in quel sistema di chiusura dei pantaloni si nascondeva qualcos’altro di un semplice rito iniziatico. Quando frequentavo una certa università ho avuto modo di iniziare me stesso all’uso degli orinatoi. Era un’attività alquanto nuova per me che avevo quasi esclusivamente vissuto in casa dei miei genitori in cui mi era severamente vietato pisciare stando in piedi e dove quindi ero costretto a sedermi per non schizzare di piscio la tazza e le piastrelle che rivestivano il nostro bagno nell’appartamento in affitto al quarto piano di un condominio degli anni ottanta. In ogni caso dicevo dell’università e di quanto l’uso degli orinatoi mi avesse dato una certa gioia, una forma di libertà e condivisione urbana della pisciata in cui alla necessità del pisciare si accavallavano a volte questioni di tipo sociali come la condivisione parziale della nudità. Io non avevo problemi, o meglio avevo imparato a non avere problemi e posso dire che era tanta la gioia per poter pisciare stando in piedi che quasi non ci pensavo che qualcuno potesse essere disturbato dal fatto che stessimo condividendo uno degli atti che solitamente siamo abituati a fare da soli. Ma comunque non è questo di cui volevo parlare, perché in realtà la questione che mi sta a cuore è un’altra. Quello di cui volevo discutere riguarda i bottoni dei pantaloni e il fatto che quei bottoni devono voler significare qualcosa. Ogni pantalone da uomo sprovvisto di cerniera ha solitamente quattro bottoni di chiusura, uno, il principale, serve a chiudere definitivamente la vita del pantalone e gli altri tre, solitamente di dimensioni ridotte rispetto al primo, sono disposti in asse verticale e servono a chiudere quella che ho già chiamato la patta con un’espressione regionale che secondo me è stata resa nota da un tipo di commedia cinematografica italiana lateralmente legata al neo-realismo. Mentre usavo gli orinatoi la domanda che mi facevo e che volevo fare a tutti quelli che usavano con me gli stessi orinatoi alla facoltà di biologia era se quei bottoni, i tre minori diciamo, funzionassero da apparato autonomo o se fossero sempre e comunque dipendenti dal bottone principale. Insomma una volta ho provato a chiedere a uno dei ragazzi del corso di chimica organica se lui quando pisciava si sbottonava tutti e quattro i bottoni o se utilizzava solo i tre posti nell’asse verticale di cui stavo parlando in precedenza. Io sono sempre stato un tipo alquanto normativo, una persona insomma che crede nella destinazione d’uso degli oggetti e quindi, avendo creduto sin dall’inizio che i tre bottoni posti in asse verticale, fossero stati posti in quella linea per agevolare una rapida e veloce pisciata, avevo sempre provato a fare un uso diciamo corretto di quei bottoni. Per un certo periodo, diciamo corrispondente all’inizio della mia indipendenza nell’acquisto di abiti e biancheria intima, anche in questo caso nel momento in cui mi ero agevolato dalla dittatura dei regali di natale di nonne e zie che mi riempivano di mutande dozzinali, avevo anche provato ad acquistare biancheria intima con apertura frontale. Aperture svariate, a banda diagonale sovrapposta per gli slippini oppure a micro bottoni, quatto e della stessa dimensione in questo caso, per i boxer. Aperture che erano a mio parere state pensate anche in quel caso, sempre volendo riflettere su di un ipotetica linea  di pensiero funzionale, per agevolare il piscio. Quindi per un periodo ho provato a pisciare senza sbragarmi del tutto ma solo aprendo i bottoni chiamiamoli minori che se la mia riflessione non era stata del tutto erronea, dovevano essere stati posti in quella linea verticale proprio per agevolare e velocizzare le operazioni del piscio. Ma più di una volta la mia tendenza normativa e la mia fedeltà a quella che credevo fosse una semplice funzionalità di design, mi avevano fatto perdere tempo piuttosto che recuperarlo. Non di rado capitava che perdessi minuti e minuti nel aprire e chiudere la doppia fila di bottoni, quella del pantalone e quella dei boxer, altre volte, pur volendo escludere il bottone principale dall’operazione di apertura, questo si apriva di conseguenza, in ogni caso quello che accadeva era una necessità di tempo maggiore per un operazione che sicuramente non ne abbisognava più di un tot. Ecco allora che è da quel momento che vivo in una certa conflittualità perché se da un lato credo ciecamente nell’utilizzo ottimale delle funzioni degli oggetti dall’altro lato non sono uno a cui piace perder tempo. 

sabato 17 gennaio 2015

I debiti del bere

































Si dicevano sempre addio, lo facevano ogniqualvolta si lasciavano. Lo facevano per gli incontri occasionali sulla strada verso il panettiere o mentre sostenevano di correre a comprare il latte e tutte quelle cose di cui dicevano di aver bisogno per sopravvivere. Si dicevano addio perché era il modo migliore per essere felici di ritrovarsi. Bene, si dicevano addio anche perché non potevano aspettare troppo prima di correre verso quello di cui avevano bisogno realmente, nè pane nè latte, ma loro si dicevano addio per ritrovarsi con la loro solitudine accompagnati dai loro bicchieri di vino. Si erano conosciuti dicendosi addio, guardandosi negli occhi per un istante, alla fermata del bus, e capendo che il modo migliore per celebrare quell'incontro e per augurarsi quel distacco fosse dirsi addio. Lui capitava spesso nei bar che lei frequentava ma mai nel momento in cui lei era presente, d'altronde lei usciva spesso dalle cantine in cui lui stava per entrare. Si mentivano, si erano sempre mentiti, e le rare volte che si erano fermati a parlare di loro si erano solo confessati delle cose che non erano accadute davvero. Lui diceva di amare le lunghe colazioni salate, lei di passare i sabato pomeriggio a leggere letteratura svedese. Alle persone dichiaravano di essere dei perseguitati politici, afflitti dal peso delle idee, la gente non credeva a una delle loro parole e immaginava che l'unica afflizione a cui quei due andavano in contro era quella di non potersi permettere una nuova boccia di vino. Lui e lei non bevevano mai insieme, ognuno per conto suo e tutti e due separatamente. Nella loro completa solitudine bevevano quanto più gli era possibile e quanto più le loro finanze potevano offrirgli. Come ho detto si mentivano su tutto, ma sopratutto si mentivano sul bere. Qualche volta lui, che tra i due era il più ingenuo, confessava parzialmente di aver bevuto un bicchiere e lei, che tra i due aveva capito meglio come funzionano le brutture della vita, replicava che erano quasi otto anni che non toccava un bicchiere. Lui e lei vivevano in case non molto distanti tra loro, agli amici dicevano di essere perfino innamorati, ma chi li conosceva sapeva bene che non si erano mai nemmeno accarezzati. Un giorno, non lontano dalle loro case, lui fu scaraventato fuori da un bar dove stava bevendo lo stesso bicchiere da più di due ore. Il proprietario del bar l'aveva visto contorcersi sulla sedia nel tentativo di tenere a freno quella sua lingua ruvida e torturata dal languore, l'aveva visto trattenere le lacrime difronte al liquido rosso che scemava davanti a sé. Stava provando a non bere aspettando che qualcuno nel bar iniziasse ad offrire del vino per celebrare un qualsivoglia evento a cui lui avrebbe senz'altro contribuito con i migliori auguri di cui era capace. Quella sera, in quel bar, nessuno sembrava aver bisogno di bere in compagnia, ognuno affondava la bocca nella celebrazione aspra e solitaria del bicchiere tenendosi alla larga da tutte quelle cose che possono entrare da per tutto ma di certo non nel foro circolare in cui cascavano i loro occhi. Lui bevve ciò che gli restava nel fondo del bicchiere precipitando gli occhi sull'asta che ne sorreggeva il collo e capitombolando per disperazione sul legno macchiato dalla cenere e dal fumo dei millenni. Quando si accorse di aver vuotato tutto quel che gli era rimasto, iniziò a supplicare il barista di dargli qualcosa da bere di fargli credito o di accettare in permuta quella che lui diceva essere una sciarpa in cashmere principe di Galles. Il barista era un uomo senza segreti e che conservava tutto ciò di cui si ricordava nella pancia. Negli anni aveva imparato diverse cose sui debiti. Sapeva che nessuno mai avrebbe pagato quelli da gioco e che nessun altro ancora avrebbe saldato i prestiti, ma sopratutto era certo che i debiti del bere erano quelli che scomparivano dalla memoria dei debitori come il vino dai loro bicchieri. Lui si ritrovò fuori dal bar macchiato di vino e con il volto insanguinato, lei per caso stava passeggiando con in mano il fiasco vuoto di un pomeriggio intero. Nell'istante in cui si videro negarono entrambi la possibilità d'aver bevuto, lei disse che gli sembrava di aver sentito qualcosa bruciare nel vialetto del suo giardino e di essersi precipitata a vuotare una bottiglia d'acqua su quello che temeva potesse diventare un grosso incendio. Lui disse che aveva a tal punto corretto i sui testi sulla guerriglia di strada da non essersi accorto dell'inchiostro che dalle dita gli era scivolato sul petto e sul colletto della camicia. Quella volta si dissero addio quasi immediatamente, le loro menzogne sembravano plausibili come sempre, ma entrambi sapevano che come tutte le menzogne anche le loro erano fragili e succubi del tempo. Quella storia andò avanti svariate altre volte, tra lui e lei nessuno ammise mai all'atro ciò che era chiaro ad entrambi, la gente continuò a chiamarli ipocriti e menzogneri, ma qualcuno, io ne sono certo, imparò ad apprezzarli e a capire che erano solo dei liberi poeti e non esclusivamente degli amanti superficiali.

venerdì 3 ottobre 2014

Scheda Anagrafica #2




























Scheda anagrafica è una nuova sezione letteraria le blog. Attraverso scheda anagrafica si censiranno una serie di persone e sarà data la possibilità a chi ne avesse bisogno, di leggere la biografia letteraria di alcuni personaggi la cui vita biologica è stata, per puro caso, trasformata in un soggetto narrativo. 
Come spesso accade in letteratura, il formato di scheda anagrafica nasce da un errore, in questo caso dall'incapacità di Minio Gerato, addetto all'ufficio anagrafe del comune di Sheltrasse in Sila, di adempiere correttamente al suo lavoro. Mino, il cui compito era quello di registrare nascite e decessi del piccolo paese della Sila, aveva una strana forma di handicap psichico che non gli permetteva di leggere e compilare moduli e schedari che richiedevano risposta secca. Mino si ostinava a compilare le schede con lunghe descrizioni narrative che, rilette oggi, hanno un sicuro interesse letterario. 
Scheda anagrafica è quindi la trascrizione fedele del lavoro dell'impiegato comunale Minio Gerato. Per motivi di chiarezza i testi sono stati epurati da errori ortografici e da incongruenze lessicali e si è provato ad accordare i tempi verbali.

Floriano l'italiano


Nella serra di tulipani nel pozzo del grosso collettore da cui i floricoltori prendono l'acqua per dare colore e profumo a quello che nasce dai semi che sputano in maggio, è stato rinvenuto cadavere un uomo che aveva con se dei documenti consumati dal tempo. Quest'uomo ha grandezza importante, una testa piena di riccioli biondi e un'espressione che, ad opinione dei becchini, non sembra quella del morto, o meglio, che non sembra essergli appartenuta quando non era morto. Gli uomini del cimitero che lo tengono in custodia nella sala raffreddata, spesso gelata, dicono che hanno come la sensazione che quest'uomo, che sostengono di non conoscere, abbia stampata sul volto una faccia che non gli appartiene. Nella tasta sinistra dei suoi pantaloni è stato trovato un foglietto su cui è stampato un nome e un aggettivo: "Floriano l'italiano". Per questo motivo e in mancanza di prove o di fogli riposti in altre tasche dell'unico pantalone indossato dall'uomo, si è deciso, insieme agli uomini in cimitero, di riferirsi all'uomo con il nome di Floriano l'italiano. Dalla faccia i becchini deducono che questo Floriano sembra essere stato un uomo dal temperamento mite e delicato, un uomo taciturno e forse amante degli animali selvatici, di certo non un fumatore, ma quasi sicuramente un collezionista di farfalle. La sua faccia è fatta per lo più in una bella maniera, liscia, con alcune piccole ferite sulla parte destra della fronte, per quanto riguarda il dubbio sull'espressione ho parlato a lungo al telefono gli addetti cimiteriali che mi hanno fornito una storia che di certo non posso ritenere esaustiva, ma che allo stesso tempo non posso sottrarmi dal trascrivere. I due becchini, amanti bevitori del vino in cartone, sostengono che io debba accettare la loro opinioni perché, stando a quanto dicono, non ci possono essere nell'intero paese degli esperti in fisiognomica funebre al loro pari. La loro esperienza gli deriverebbe dall'assiduità e dalla frequenza con cui i due uomini fissano i volti dei morti che hanno in custodia. I due becchini passano spesso del tempo a sostituire le lampadine fulminatesi per l'umidità nella cella mortuaria e nel mentre non riescono a far altro che fissare in volto i cadaveri che hanno in custodia. Uno di loro, uno di questi impiegati comunali, dice d'aver la certezza che gli uomini che trapassano, conservano come gelosamente qualcosa di vivo nelle loro facce pallide e fredde. Questo qualcosa di personale il becchino non sa come definirlo e, se gli viene chiesto di farlo, adduce la valida motivazione di non essere un uomo di lettere. A queste deboli motivazioni l'altro becchino non sa aggiungerne altre, d'altronde, tra i due, quest'ultimo è quello che più fa uso del vino in cartone. Io non posso, nel compilare questa scheda, che attenermi alle opinioni di questi uomini che hanno visto il volto defunto di quest'uomo rinvenuto non lontano dalla serra dei tulipani e, non conoscendo ne avendo trovato notizie o immagini di quello che abbiamo concordato chiamare Floriano l'italiano, posso solo trascrivere che, stando a quanto si dice tra uomini definitisi esperti, ogni uomo difronte all'incertezza di poter tenere con sé la propria anima, non rimane che conservare almeno ciò che gli resta della propria faccia.   

giovedì 10 luglio 2014

Un pittore dilettante







































«Non so di preciso come faccia a funzionare la memoria, ovvero non so se vi siano delle componenti fisiologiche particolari che ci permettono di ricordare una cosa piuttosto che un altra, fatto sta che credo di possedere un ottima memoria!»

Quando ho capito che l'articolazione del mio ginocchio destro era cronicamente infiammata sono ricorso alle cure di un medico che, dopo alcuni esami diagnostici, mi ha consigliato delle sedute da una fisioterapista sua amica. Il primo giorno di trattamento ho confessato alla fisioterapista che il suo studio, una stanzetta completamente bianca illuminata da una lampada a soffitto schermata da un pannello che ne diffondeva la luce, mi ricordava tantissimo la sala dove l'odontoiatra mi aveva preso il calco della bocca per il mio primo apparecchio ortodontico e che, mentre ero disteso sul suo lettino non riuscivo a dimenticare quella sensazione di soffocamento che provai all'ora, mentre l'odontoiatra mi ficcava in bocca 100 grammi buoni di gesso al gusto di menta. La fisioterapista mi chiese perché mai la sua lampada a soffitto mi ricordasse la mia prima macchinetta odontoiatrica e io gli spiegai quelle che erano le sensazioni che avevo provato da ragazzino, facendogli anche l'elenco dettagliato degli oggetti che c'erano nello studio del dentista. Gli descrissi in che modo le ombre della stanzetta in cui lei mi trattava il ginocchio mi avevano indotto a risvegliare la memoria del mio primo traumatico intervento odontoiatrico. La fisioterapista mi chiese che lavoro facessi e le dissi che ero disoccupato e poi, mentre passeggiavo sul suo tappetino in gomma piuma e lei mi osservava gambe e piedi, iniziò a parlare con un tono di estrema professionalità spiegandomi che quel mio ricordo era all'interno di una sacca di memoria sensoriale visiva e che, all'interno della nostra mente, possono esserci sia ricordi iconici che ricordi a persistenza visiva, e che vi è inoltre, una memoria uditiva fatta come una specie di registro sonoro e vocale ben distinto. Le sedute dalla fisioterapista furono quattro in totale, iniziò col manipolarmi la coscia destra poi passo al polpaccio e poi al piede e alla caviglia, ogni volta, mentre sfregava ossessivamente su i muscoli intorpiditi, mi dava delle piccoli lezioni di fisiologia sulla memoria sensoriale.

A volte la mia memoria mi crea dei piccoli problemi, spesso le persone confondono le mia buone capacità mnemoniche con stati appartenenti a sfere più intime e personali; la gente infatti, crede che io sia particolarmente affezionato a loro solo perché sono in grado di ricordare per lungo tempo la loro voce o i lineamenti del loro volto. C'era per esempio un pittore dilettante che si guadagna onestamente da vivere facendo l'impiegato di banca in una filiale del Banco di Brescia, in passato, questo pittore dilettante aveva provato a contattarmi, all'epoca lavoravo per una squallida galleria d'arte. Il pittore dilettante mi aveva proposto alcuni dei suoi lavori, io avevo sempre reindirizzato le sue richieste ai capi della galleria, qualche volta il pittore dilettante era anche passato a trovarci in galleria, io gli avevo lasciato anche il mio numero di telefono e lui mi aveva chiamato per chiedermi come era la situazione in galleria. Quel pittore dilettante era una persona comune, piena di cose comuni da dire e vestito come tutti con gli abiti presi in sconto da Coin. Da quei nostri contatti sporadici non era accaduto mai nulla di memorabile eppure la sua voce, leggermente nasale e il suo accento ibrido, mi sono rimasti in testa. Ma a quel pittore dilettante è meglio non concedere troppe attenzioni, infatti, un lunedì pomeriggio mentre uscivo di casa, ricevetti una chiamata al cellulare. Sullo schermo vidi comparire un numero di telefono sconosciuto, il prefisso era quello dell'area urbana di Brescia, risposi al telefono e mi accorsi che era il pittore dilettante
«Ciao» disse una voce nasale e dall'accento ibrido «ti ricordi di me?»
«Ciao» risposi senza indugiare e con l'aria di uno che risponde alla chiamata di un amico o di un conoscente con cui a volte beve un caffe «mi ricordo di te.»
«Ma allora ti ricordi davvero di me?» disse la voce all'altro capo del telefono.
«Certo» feci io.
«Fantastico» fece lui come soddisfatto e, dopo il breve tempo che gli ci volle per riprendere fiato, iniziò a raccontarmi la parte della sua vita da pittore dilettante che non conoscevo e che mi ero perso in quei quattro anni in cui non ci eravamo ne sentiti ne visti. Io lo ascoltai per quasi cinque minuti senza interromperlo, ma ad un certo punto capii che il pittore dilettante stava fraintendendo la mia disponibilità ad ascoltarlo e che iniziasse a pensare che io fossi davvero interessato alle sue cose da pittore dilettante quindi, mentre lui continuava a parlare, io cominciai a riflettere sul modo e sul momento più opportuno per fugare quel malinteso, quel fraintendimento.
«... si capisco» dissi ad un tratto, senza paura di interrompere l'elenco alfanumerico delle mostre da hobbista, attaccando poi con ciò che mi stava particolarmente a cuore «sai pittore dilettante, se mi ricordo di te non è perché io ritenga il tuo lavoro particolarmente meritevole o perché, in qualità di rappresentante di un ex istituzione commerciale dedita alla vendita di opere d'arte – sai nel frattempo non lavoro più in galleria – vi possano essere prospettive lavorative e commerciali per la tua attività da pittore dilettante, in realtà ricordo vividamente la tua voce e riconosco distintamente la tua parlata dall'accento ibrido... ma continua pure, ti ascolto.»

Il pittore dilettante bofonchiò ancora qualche parola, ma nulla che avesse a che fare con la sua attività di hobbista pittore, la comunicazione si interruppe e io non ebbi più notizie dirette di quel pittore dilettante, ma ho saputo, attraverso un amico che lavora nel magazzino di un mobilificio di Rezzato, che quel pittore dilettante continua a dipingere e che ha organizzato delle mostre di pittura all'interno di sei grossi negozi di arredamento sparsi nell'entroterra delle provincie di Brescia, Mantova e Cremona. Di questa cosa, di questa che mi ha detto il mio amico che lavora a Rezzato, sono molto contento, lo sono perché almeno il pittore dilettante non si è dato all'alcol, ne ha iniziato a fracassare i vasi per strada, ne ha provato a urlare cose sconce alla fermata del bus, ne a scrivere frasi con vernice rossa sui muti, insomma nonostante quella mia confessione, credo che il pittore dilettante sia ancora contento e creda ancora di poter migliorare il mondo con il suo lavoro, o almeno le provincie di Brescia, Mantova e Cremona. 

domenica 8 giugno 2014

Una gita al fiume




































La religione gli aveva fornito in anticipo le risposte a tutte le domande che non aveva rivolto direttamente a se stessa, l’aveva rinchiusa nei suoi sessantotto chilogrammi di carne e sudore, l’aveva avvolta di stracci di seconda mano e gli aveva imposto un mutismo che difficilmente riusciva a rompere. Quando aveva scelto l’università fuori dalla sua città, ad ospitarla c’era stato un convitto gestito da carmelitane e frequentato dalle pendolari dell’istruzione. C’era un frigorifero per piano, ogni frigorifero aveva i reparti divisi in otto sezioni, come otto erano le celle, in cui vi erano otto letti, con otto crocifissi in finto legno, dotate di otto interfoni per chiamare la portineria. In una sala al pianterreno c’era un televisore al tubo catodico che aveva annerito il muro bianco su cui scaricava da anni le sue radiazioni. Sul televisore c’era un crocefisso, c’era un crocefisso anche sul telefono, sul frigorifero, sul forno a microonde e sulla radio; in quell’ospizio il signore vegliava sulla presunzione dell’uomo di migliorare la vita con gli aggeggi attaccati alla corrente. I programmi alla tv li si potevano scegliere, bastava prenotarli con una settimana d’anticipo. Quella sera era il suo turno, aveva chiesto di guardare Chi l’ha visto, sapeva che anche suo padre e sua madre, a chilometri di distanza, stavano sprofondando nelle poltrone con lo sguardo attaccato allo schermo per sbirciare le sciagure altrui. Il portone del convitto si chiudeva alle undici di sera, ma quella sera qualcuno trascinò all’interno delle mura un trolley arancione con dieci minuti  di ritardo rispetto all’orario di chiusura. Ad accompagnare la ritardataria c’era una piccola suora filippina. A quell’ora non c’era spazio per presentazioni e saluti, così la nuova ragazza scomparì su per le scale insieme alla sua accompagnatrice. Il programma alla tv era finito, quando la luce nella scatola si spense, lo sguardo di Rachele si posò sul crocefisso condannato al rogo delle radiazioni del televisore. Nel convitto c’era il silenzio delle notti passate a dormire, le lampadine a risparmio energetico restavano accese il tempo necessario per attraversare i corridoi, un timer che non temeva di sostituirsi a Dio, decideva il tempo della luce in quel budello piastrellato che odorava di disinfettante. Sulla scrivania di Rachele c’erano i libri fotocopiati per l’esame di chimica. Il primo cassetto della sua scrivania aveva un doppio fondo, nel vano nascosto vi era stipato un pacchetto di sigarette, una cima di Orange Bud e delle forbicine. Quando si accese lo spinello era da poco passata la mezzanotte, la luce in camera era spenta e la grossa testa rossa della sua torcia le illuminava parte del volto. Dalla finestra usciva un fumo denso che prima si compattava in nuvole grasse e che poi si perdeva immediatamente nella crudeltà dei fattori atmosferici esterni. Ogni volta che fumava da sola pensava all’amore. Non sapeva esattamente cosa fosse, ma era innamorata dell’amore. L’erba gli permetteva di mettere da parte le paure, si sentiva quasi felice, ma a volte troppo felice da diventare subito triste. Nella testa gli si arrampicavano i pensieri che solitamente lasciava sotto la montagna del suo mutismo, gli arrivavano alla bocca ed era in quei momenti che sentiva il sapore dolce delle cose. Quando il fumo scappò via dalla finestra Rachele chiuse gli occhi e si addormentò senza svestirsi per risvegliarsi dritta come sempre il giorno dopo nell’aula magna della sua università.

Il professore era parzialmente accecato dal fascio di luce che il proiettore sparava verso lo schermo alle sue spalle, Rachele aveva riempito due pagine con numeri ordinati in colonne immaginarie. I suoi occhi facevano la spola tra il foglio di carta e il volto, illuminato per un sesto, del suo professore. In uno di questi intervalli si accorse che nel margine alto, a destra del suo quaderno, una scritta di color verde acido aveva interrotto l’ordine delle sue trascrizioni con un’inspiegabile: “vieni al fiume questo pomeriggio?” Gli occhi di Rachele si alzarono e trovarono il volto sorridente di una ragazza della sua età magra e senza seno. La rabbia per la scritta fuori luogo svanì quasi subito e non si accorse che quasi immediatamente dalla bocca gli uscirono le parole “Si, certamente”. 

Letizia aveva dei capelli biondi che si contendevano con la superficie argentata del fiume gli ultimi riflessi del tardo pomeriggio. Era l’unica a parlare, parlava e ascoltava i mugugni di approvazione di Rachele, faceva domande a cui si dava da sola risposte cordiali, parlava e sorrideva tanto da compensare il volto indurito della sua compagna di passeggiata. In quel periodo di giugno gli insetti sembravano aver metabolizato il caldo della primavera e traevano forza dall’arrivo imminente dell’estate. Flotte di moscerini si schiantavano sulle facce delle due ragazze. Quando giunsero al bosco appena oltre l’ultima curva del fiume Letizia si sedette sul tronco collassato di un albero di cui non riconosceva il tipo. Rachele si sedette al suo fianco fissando ipnotizata il movimento veloce delle sue labbra che trasformavano l’aria afosa di quella giornata in parole veloci e senza sosta. Bevvero qualche birra, poi Rachele rollò una canna. Letizia sorrise e quando vide l’erba e si strofinò le mani come se fosse dinanzi ad una bistecca. Fumarono e si abbracciarono, poi iniziarono a ridere. Dagli occhi di entrambe scendevano lacrime di gioia. Le mandibole si muovevano tendendo, con tutta la forza di cui erano capaci, i muscoli della faccia verso le orecchie. Le mascelle, gli zigomi le tempie gli dolevano per le risate. Erano piegate in due sull’erba per non incontrarsi con gli sguardi. Dopo qualche minuto non riuscivano a controllare cosa gli stava accadendo, non capivano il motivo per cui non gli era possibile fermarsi, non erano più divertite, erano terrorizzate, entrambe impaurite di morire dalle risate. Letizia impallidì, la bocca gli si chiuse e lentamente cadde a terra con la faccia riversa nello scolo della birra che stringeva nella mano destra. Rachele smise in quell’istante di ridere, sentì la sua ultima risata tra il ronzare degli insetti e per un attimo ne fu felice. Letizia era a terrà, Rachele fece fatica a riconoscerla, poi corse verso il fiume ma, proprio mentre si abbassava per passare sotto ad un ramo basso, ebbe come l’impressione di non ricordare il motivo per cui stava correndo verso l’acqua. Si sedette e inizio a parlare con se stessa a farsi delle domande, sperava di capire, comprendere perché quel tardo pomeriggio i suoi sessantotto chilogrammi di carne e sudore si stavano affannando in una corsa verso il fiume. 

venerdì 14 marzo 2014

La rivoluzione relativista (Urbino)































C'era un professore all'università di Urbino che odiava Umberto Eco ed Enrico Ghezzi.
Insegnava storia medievale.
Era un prete.

Seguivo il suo corso perchè lo seguiva una ragazza che mi piaceva, non ho mai dato l'esame e quella ragazza credo di averla dimenticata in fretta. Ricordo che era il primo anno di università, ero felice di poter vomitare nell'ascensore del mio palazzo, convinto che i cani dei punkabbestia hanno tutto il senso d'orientamento che i loro padroni hanno tragicamente smarrito da qualche parte. 
D'inverno la nebbia faceva diventare Urbino una città fantastica. Risalivamo dal magistero e c'era un punto in cui non si vedeva nulla, ogni riferimento architettonico rinascimentale che avvelenava le cartoline stampate in quadricromia scompariva. Camminavamo sulla cresta di un monte e io facevo domande stupide sul tuo tatuaggio, il tuo feto stampato sul lato destro dell'inguine.
Il professore veniva in aula con un cappotto nero da prete, parlava per qualche minuto della conversione di Clodoveo e trovava, in ogni fessura della storia, le raggioni buone per condannare il relativismo in cui Ghezzi ed Eco ci ci stavano spingendo. Noi non obbiettavamo, ma masticavamo tra i denti tutte le bestemmie che liberavamo sulla strada in salita.

Mi hai detto che aspettavi un bambino mentre facevi ciao con la mano.
 
A volte spero che nessuno si sia preso mai la briga di spiegare al professore che la guerra fredda è finita. A volte penso che quel tatuaggio era il tuo bambino. Dicevi che in Romagna la gente non sta a perdersi dietro alla poesia, che in Romagna i bambini nascono con le maniche tirate sù. Quando mi hai salutato per l'ultima volta ci conoscevamo da nove mesi ed io, con tutta la filosofia da poco che c'era nei miei ventanni, ti ho detto che con te un anno non poteva non essere storia, che la nostalgia l'avrei ratificata mensilmente. La nebbia s'era disfatta sotto al sole di marzo e io potevo vederti bene. Ridevi per la mia ingenuità. E potevo vedere bene il lato lungo del palazzo ducale, le pietre di quelle cartoline in quadricromia.

Finche c'era il professore di storia medievale ad Urbino continuava ad esserci qualcosa da poter odiare, solo la morte poteva portarlo via, la sua rabbia non sarebbe morta con lui, la morte avrebbe potuto dove la pensione aveva fallito. Spero che nessuno ha avvertito il professore quando Eco e Ghezzi hanno annunciato in TV di aver perso la loro rivoluzione relativista.