lunedì 8 luglio 2013

Indesit















La storia del mio frigorifero è indissolubilmente legata a quella della mia vita. Entrambe, quella dell'elettrodomestico e quella biografica, sono storie semplici senza picchi di pathos, potrebbero essere raccontate da chiunque e di certo non meritano di essere scritte, raccontate, conservate, tra le storie che forse un giorno contribuiranno alla storia di questo paese. Queste sono parole di cui si può fare tranquillamente a meno, ma se ho deciso di raccontarla è perché su quanto sto per dire non c'è nulla da dire ed io per pigrizia preferisco fare ciò che mi richiede sforzi sommari e non duraturi piuttosto che articolate riflessioni della cui rinuncia non ci si perdonerebbe. Rinunciare in questo momento alla lettura non sarebbe un'atto delittuoso, una tragedia, ma piuttosto una scelta condivisibile una scelta che chiunque (io stesso che sono l'oggetto a cui si rinuncia) potrebbe comprendere e in maniera implicita giustificare. Vi prego quindi di non giudicarmi se credete che sia altrettanto inutile preannunciare l'inutilità stessa di ciò che si sta per dire, preferisco farlo sin d'ora e fare ammenda nei confronti di chi si aspetta di trovare in queste poche parole un briciolo di senso.

Il frigorifero Combi Indesit era arrivato in casa nel 1988. Il suo enorme vano congelatore mi faceva pensare alle casette dell'Edenlandia in cui a otto anni sarei andato ad abitare volentieri. Era grande, grandissimo, qualcosa di tanto grosso da chiedersi “come ha fatto a passare dalla porta?” Mio padre ci lavorava all'Indesit e quel frigorifero l'aveva visto crescere e correre sulla catena (di montaggio). I suoi racconti avevano qualcosa di creazionistico, lasciavano trasparire la soddisfazione d'aver contribuito a trasformare lamiere, plastica, poliolo e isocianato in qualcosa di funzionante, di vivo. Ci parlava del freon: nel frigorifero c'era il freon, il motore pomapava freon nelle serpentine per raffreddare il vano interno, il freon era un gas e come ogni gas non andava disperso nell'ambiente, il freon era inodore, il freon lo tenevano in bombole più leggere delle nuvole. Sapeva tutto di quel frigorifero, l'aveva seguito furtivamente con lo sguardo mentre passava sul nastro metallico, per il resto si era affidato allo sguardo di tutta quella gente che c'aveva messo mano sulla carcassa marrone del Combi. Una massa di gente che lo afferrava, lo girava, lo tirava e poi ancora fili carrucole e braccia meccaniche, verricelli sospesi che tenevano quel parallelepipedo a mezz'aria sopra le teste di tute blu sparpagliate in gruppetti intorno a postazioni invisibili. Gli occhi di mio padre erano gli occhi di tutti “Argo che tutto vede”. Occhi che al collaudo immaginavano caselle sempre più difficili di parole crociate, quattro verticale, caselle lasciate vuote e il comodino la sera prima di andare a letto. Va lasciato a riposo qualche ora prima di metterlo in funzione, il gas - il freon - deve avere il tempo di ritornare al suo posto, quelle ore le abbiamo passate ad osservare e ad abituarci alla mole di quel colosso piombato in cucina.

Certo non era quello il momento di tirare conclusioni, di incrociare le mani dietro al capo e di osservare la magnificenza del proprio lavoro. Non lo era allora e non lo è adesso, perché dopo quel frigorifero, mio padre ne ha seguiti altri, non tutti, ma buona parte di quei trecento che giornalmente vedeva passare mentre correva in bici tra una macchina e l'altra per fare il suo mestiere di manutentore. Io non ho un parere al riguardo ma a chi me lo chiede rispondo che le fabbriche sono disumane perché qualcosa fa sì che queste fabbriche lasciano che in ogni uomo resti sempre accesa una certa fiammella creazionista, gli operai si illudono di plasmare un oggetto, di terminare qualcosa. Tutto va contro le regole di quel carosello che nessun riuscirà mai a veder fermo. Non esiste il prodotto finito, non esiste la fase completa e anche all'ultima donna che imballa la carcassa del frigo con il polistirolo e chiude lo scatolone con il nastro adesivo, non è concesso di essere soddisfatta per aver compiuto quanto gli era stato assegnato. E' disumano non concede all'uomo la possibilità di mettere sulle cose la parola fine. Ecco allora che le teste vanno oltre i finestroni sporchi di polvere da cui passa la poca luce naturale del giorno, la gente sogna, nessuno può impedire a nessun altro di andare col culo fuori dagli stabilimenti. Sullo schermo degli occhi aperti si materializzano il nuovo pavimento di casa con piastrelle in cotto, oppure il ciondolio dell'arbre magic nella FIAT 131 di colore grigio metallizzato. La vita finisce solo fuori dal girotondo della catena ed è là fuori che passa il macchinone lungo guidato dai becchini, vetri oscurati e motore diesel, t'accompagna al camposanto. L'autista magari rallenta, guarda il parcheggio della fabbrica dove una volta lavorava anche lui, è semi vuoto, poi strappa via con violenza l'ultima boccata ad una sigaretta oramai esausta e la scaraventa via, sull'asfalto bucherellato che una volta era calpestato da migliaia di operai con il naso all'ingiù.

Non può essere negata la speranza di essere ascoltati, d'altronde pur essendo questa una storia senza storia, un racconto di morti, è pur vero che ai vivi, a quelli che restano, qualcosa va pur detto. Si combatte sempre, in ogni istante per non lasciare che le storie dei nostri elettrodomestici siano solo il racconto di cocomeri tenuti al fresco, ecco quindi quello che so dell'ultimo sciopero. Il corteo, mi hanno detto, è sfilato per le stesse strade dove di solito si cammina in macchina; qualcuno ha fatto sapere ai giornalisti che non lascerà che le cose finiscano così come chi dice di aver vinto ha già scritto sugli stessi giornali. I ragazzi invecchiati con contratti a tempo determinato fumano sigarette di contrabbando e controllano le foto degli amici su facebook. Il corteo era davvero poca cosa e tutti quegli occhi che una volta guardavano scorrere l'adolescenza degli elettrodomestici adesso stavano ai margini ad osservare imparziali. In paese tutti hanno lavorato, avuto a che fare, salutato, passato, giocato, bestemmiato, intralciato, goduto, pianto per l'Indesit, ma oggi il divano in pelle e il figlio nella guardia di finanza sembrano essere un valido motivo per non parteggiare con nessuno. Forse non parteggerebbero per se stessi nemmeno gli stessi operai, disgregati e affranti, ridotti a poltiglia e pronti a baciare mani cinte d'anelli per un nuovo impiego.
Il sole inizia ad essere caldo e per le strade i cumuli d'immondizia attirano i primi insetti affamati, le autorità locali incerottano fasce tricolori la cui integrità non potrà, in nessun modo, essere presa in prestito. Il vociare diventa sempre più confuso, i bambini strillano e sbraitano senza argomentare in direzione degli stessi padri che dovrebbero garantirgli un futuro. Le madri invece tengono i loro ragazzi guinzaglio come cani, sperano che siano le ragnatele a fermare le zanzare e sono sicure che prima o poi tutto andrà per il verso giusto.
All'ora delle comunicazioni televisive erano già tutti pronti ad osservare il profilo migliore, a sguainare parole come spade nazionali a mettere un'altra voce nelle voci dell'ovvio.


Il frigorifero l'hanno sostituito con un affare più grande, cose da non crederci, litri da riempire, lamiere sempre più grosse e difficili da piegare. Nel cassone deve esserci ancora la maglia, la maglia del Toro sponsor Indesit, lana spessa, due chilogrammi con sudore, mia madre forse risparmierebbe volentieri la centrifuga a quelle vecchie fibre, ma d'altronde si sa che i morti non saranno mai al sicuro dai nemici se questi continuano ad averla vinta.   

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