La storia del mio
frigorifero è indissolubilmente legata a quella della mia vita.
Entrambe, quella dell'elettrodomestico e quella biografica, sono
storie semplici senza picchi di pathos, potrebbero essere raccontate
da chiunque e di certo non meritano di essere scritte, raccontate,
conservate, tra le storie che forse un giorno contribuiranno alla
storia di questo paese. Queste sono parole di cui si può fare
tranquillamente a meno, ma se ho deciso di raccontarla è perché su
quanto sto per dire non c'è nulla da dire ed io per pigrizia
preferisco fare ciò che mi richiede sforzi sommari e non duraturi
piuttosto che articolate riflessioni della cui rinuncia non ci si
perdonerebbe. Rinunciare in questo momento alla lettura non sarebbe
un'atto delittuoso, una tragedia, ma piuttosto una scelta
condivisibile una scelta che chiunque (io stesso che sono l'oggetto a
cui si rinuncia) potrebbe comprendere e in maniera implicita
giustificare. Vi prego quindi di non giudicarmi se credete che sia
altrettanto inutile preannunciare l'inutilità stessa di ciò che si
sta per dire, preferisco farlo sin d'ora e fare ammenda nei confronti
di chi si aspetta di trovare in queste poche parole un briciolo di
senso.
Il frigorifero Combi
Indesit era arrivato in
casa nel 1988. Il suo enorme vano congelatore mi faceva pensare alle
casette dell'Edenlandia in
cui a otto anni sarei andato ad abitare volentieri. Era
grande, grandissimo, qualcosa di tanto grosso da chiedersi “come ha
fatto a passare dalla porta?” Mio padre ci lavorava all'Indesit e
quel frigorifero l'aveva visto crescere e correre sulla catena (di
montaggio). I suoi racconti avevano qualcosa di creazionistico,
lasciavano trasparire la soddisfazione d'aver contribuito a
trasformare lamiere, plastica, poliolo e isocianato in qualcosa di
funzionante, di vivo. Ci parlava del freon:
nel frigorifero c'era il freon,
il motore pomapava freon nelle
serpentine per
raffreddare il vano interno, il freon
era un gas e come ogni gas non andava disperso nell'ambiente, il
freon era inodore, il
freon lo tenevano in
bombole più leggere delle nuvole. Sapeva tutto di quel frigorifero,
l'aveva seguito furtivamente con lo sguardo mentre passava sul nastro
metallico, per il resto si era affidato allo sguardo di tutta quella
gente che c'aveva messo mano sulla carcassa marrone del Combi.
Una massa di gente che lo afferrava, lo girava, lo tirava e poi
ancora fili carrucole e braccia meccaniche, verricelli sospesi che
tenevano quel parallelepipedo a mezz'aria sopra le teste di tute blu
sparpagliate in gruppetti intorno a postazioni invisibili. Gli occhi
di mio padre erano gli occhi di tutti “Argo che tutto vede”.
Occhi che al collaudo immaginavano caselle sempre più difficili di
parole crociate, quattro verticale, caselle lasciate vuote e il
comodino la sera prima di andare a letto. Va lasciato a riposo
qualche ora prima di metterlo in funzione, il gas - il freon
- deve avere il tempo di
ritornare al suo posto, quelle ore le abbiamo passate ad osservare e
ad abituarci alla mole di quel colosso piombato in cucina.
Certo
non era quello il momento di tirare conclusioni, di incrociare le
mani dietro al capo e di osservare la magnificenza del proprio
lavoro. Non lo era allora e non lo è adesso, perché dopo quel
frigorifero, mio padre ne ha seguiti altri, non tutti, ma buona parte
di quei trecento che giornalmente vedeva passare mentre correva in
bici tra una macchina e l'altra per fare il suo mestiere di
manutentore. Io non ho un parere al riguardo ma a chi me lo chiede
rispondo che le fabbriche sono disumane perché qualcosa fa sì che
queste fabbriche lasciano che in ogni uomo resti sempre accesa una
certa fiammella creazionista, gli operai si illudono di plasmare un
oggetto, di terminare qualcosa. Tutto va contro le regole di quel
carosello che nessun riuscirà mai a veder fermo. Non esiste il
prodotto finito, non esiste la fase completa e anche all'ultima donna
che imballa la carcassa del frigo con il polistirolo e chiude lo
scatolone con il nastro adesivo, non è concesso di essere
soddisfatta per aver compiuto quanto gli era stato assegnato. E'
disumano non concede all'uomo la possibilità di mettere sulle cose
la parola fine. Ecco allora che le teste vanno oltre i finestroni
sporchi di polvere da cui passa la poca luce naturale del giorno, la
gente sogna, nessuno può impedire a nessun altro di andare col culo
fuori dagli stabilimenti. Sullo schermo degli occhi aperti si
materializzano il nuovo pavimento di casa con piastrelle in cotto,
oppure il ciondolio dell'arbre magic
nella FIAT 131 di colore grigio metallizzato. La vita finisce solo
fuori dal girotondo della catena ed è là fuori che passa il
macchinone lungo guidato dai becchini, vetri oscurati e motore
diesel, t'accompagna al camposanto. L'autista magari rallenta, guarda
il parcheggio della fabbrica dove una volta lavorava anche lui, è
semi vuoto, poi strappa via con violenza l'ultima boccata ad una
sigaretta oramai esausta e la scaraventa via, sull'asfalto
bucherellato che una volta era calpestato da migliaia di operai con
il naso all'ingiù.
Non
può essere negata la speranza di essere ascoltati, d'altronde pur
essendo questa una storia senza storia, un racconto di morti, è pur
vero che ai vivi, a quelli che restano, qualcosa va pur detto. Si
combatte sempre, in ogni istante per non lasciare che le storie dei
nostri elettrodomestici siano solo il racconto di cocomeri tenuti al
fresco, ecco quindi quello che so dell'ultimo sciopero. Il corteo, mi
hanno detto, è sfilato per le stesse strade dove di solito si
cammina in macchina; qualcuno ha fatto sapere ai giornalisti che non
lascerà che le cose finiscano così come chi dice di aver vinto ha
già scritto sugli stessi giornali. I ragazzi invecchiati con
contratti a tempo determinato fumano sigarette di contrabbando e
controllano le foto degli amici su facebook. Il corteo era davvero
poca cosa e tutti quegli occhi che una volta guardavano scorrere
l'adolescenza degli elettrodomestici adesso stavano ai margini ad
osservare imparziali. In paese tutti hanno lavorato, avuto a che
fare, salutato, passato, giocato, bestemmiato, intralciato, goduto,
pianto per l'Indesit, ma oggi il divano in pelle e il figlio nella
guardia di finanza sembrano essere un valido motivo per non
parteggiare con nessuno. Forse non parteggerebbero per se stessi
nemmeno gli stessi operai, disgregati e affranti, ridotti a poltiglia
e pronti a baciare mani cinte d'anelli per un nuovo impiego.
Il
sole inizia ad essere caldo e per le strade i cumuli d'immondizia
attirano i primi insetti affamati, le autorità locali incerottano
fasce tricolori la cui integrità non potrà, in nessun modo, essere
presa in prestito. Il vociare diventa sempre più confuso, i bambini
strillano e sbraitano senza argomentare in direzione degli stessi
padri che dovrebbero garantirgli un futuro. Le madri invece tengono i
loro ragazzi guinzaglio come cani, sperano che siano le ragnatele a
fermare le zanzare e sono sicure che prima o poi tutto andrà per il
verso giusto.
All'ora
delle comunicazioni televisive erano già tutti pronti ad osservare
il profilo migliore, a sguainare parole come spade nazionali a
mettere un'altra voce nelle voci dell'ovvio.
Il
frigorifero l'hanno sostituito con un affare più grande, cose da non
crederci, litri da riempire, lamiere sempre più grosse e difficili
da piegare. Nel cassone deve esserci ancora la maglia, la maglia del
Toro sponsor Indesit, lana spessa, due chilogrammi con sudore, mia
madre forse risparmierebbe volentieri la centrifuga a quelle vecchie
fibre, ma d'altronde si sa che i morti non saranno mai al sicuro dai
nemici se questi continuano ad averla vinta.
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