giovedì 25 aprile 2013

l'ombra del novantesimo





















L'esercizio sul calcolo delle probabilità d'errore di un calcio di rigore deve tener conto di alcuni fattori;  è più alto il rischio di sbagliare per chi ha paura del portiere che gli sta di fronte. Io, per esempio, devo stare sempre molto attento a ciò che faccio e una personalissima propensione alla nostalgia, è sicuramente uno dei fattori di cui debbo tener conto per ridurre la mia propensione all'errore. In verità non si tratta di calci di rigore, no, non è di calcio che sto parlando, ma il calcio non è del tutto estraneo a tutto ciò.

Un comportamento irrazionale e meccanico, un'attitudine alla ricerca certosina di tutte quelle persone che hanno fatto parte della mia vita, ma che sono state inevitabilmente inghiottite dal tempo. Molte sere mi intrattengo parlando con degli sconosciuti provando a spiegare loro questo mio disturbo del comportamento, una volta in particolare ricordo di aver chiesto a degli allevatori di bestiame dell'entroterra lucano di provare a rinchiudermi in una delle loro stalle, dicevo:
«Rinchiudetemi in una stalla, aspettate che mi passi questa maledetta nostalgia per i tempi andati, obbligatemi a guardare non so, il ruminare stupido di una vacca, oppure il piscio fragoroso di una cavalla, costringetemi a non fare casini, a non far cose di cui potrei pentirmi il giorno dopo, vi prego.»
Forse dovrei smettere di preoccuparmi tanto o, molto più realisticamente, dovrei semplicemente smettere di giocare col tempo passato.

Quel pomeriggio mi attaccai al telefono per chiamare Riccardo. Quando eravamo solo due bambini stupidi e spietati ci divertivamo scaraventando nella vetrinetta a muro della scuola elementare che frequentavamo, i nostri compagni di classe, oppure interrompendo a bastonate la copulazione di due poveri cani randagi. Avevo un debole per il modo di fare di Riccardo, lui non era come tutti gli altri, lui aveva qualcosa di speciale, qualcosa che lo differenziava da tutti gli altri stupidi teppistelli, lui aveva talento: una naturale e onesta dedizione criminale. Come succede spesso dopo le scuole dell'obbligo io e Riccardo c'eravamo persi di vista, ma qualche tempo fa, durante uno sciopero dei benzinai c'eravamo ritrovati insieme alla coda della cassa dell'unica stazione di servizio aperta. L'avevo riconosciuto subito nonostante un orribile giacca a vento che gli arrivava alle caviglia e marcata con la scritta S.S.C. Viribus Unitis. Mi aveva raccontato della scuola da perito elettrotecnico, della moglie e dei suoi tre bambini, del lavoro da magazziniere al Discount Polletti il supermercato che faceva anche da sponsor alla Viribus, la squadra di calcio dove giocava; non sembrava che se la passasse male, ma di certo non aveva la faccia di uno che se la passava bene. Era in perfetta forma fisica, nel suo caso le tragedie del tempo non avevano prodotto l'imbolsimento, i gonfiori o l'ispessimento e la dilatazione del ventre che sono tipiche delle persone della nostra età. Quel giorno, subito dopo averlo salutato, ripensai all'incontro e un po' ci rimasi male, non certo per aver rivisto un mio vecchio compagno di giochi, ma per aver scoperto che lui: Riccardo, il mio modello da ragazzino, la mia prima guida di vita, non era diventato ne un fuorilegge ne uno sbandato. Ero semplicemente deluso di non vedere nei suoi occhi il brillare di quella che una volta credevo essere una crudeltà spietata. C'eravamo lasciati con la promessa generica di beccarci per un caffè, ma avevo il concreto sospetto che non l'avrei mai chiamato, ne per un caffè, ne per qualsiasi altra cosa; non avrei mai avuto voglia di passare del tempo con un tipo come lui, uno che andava in giro con una giacca a vento fino alle caviglie.

Vivo da solo, ma la via della solitudine non è stata una scelta, mi sono ritrovato da solo senza che lo volessi, forse a scegliere sono stati gli altri oppure isolato per un semplice calcolo statistico, o ancora messo da parte per la puzza di una vecchia micosi. Inizialmente ne ho sofferto, sono quasi impazzito all'idea di non essere una delle vertebre di quella che credevo essere la grande colonna della società efficiente, per un lungo periodo mi sono disperato della mancanza di un qualsiasi rapporto sentimentale, ma poi ho provato a ricavare dalla mia solitudine tutti i lati positivi ed ho scoperto che l'aver abbandonato i piaceri della compagnia comporta dei privilegi e dei benefici altrettanto spassosi. 
Quel pomeriggio – quando decisi di aggrapparmi alla cornetta del telefono – ero libero dal lavoro e quando il sole si rintanò dietro al palazzo difronte casa mia, sentii come la necessità di fare una chiamata. Con il sole era sparito anche l'unico sistema di riscaldamento in funzione in quel momento e sul mobile in cucina c'erano solo i panini di due giorni prima. In mattinata era passata mia madre, le buste della spesa attraverso cui riuscivo a intravedere una confezione di uova e dei surgelati imperlati di gocce d'acqua, lo testimoniavano. Nella semi oscurità del tardo pomeriggio cercai nell'elenco del telefono Talassico Riccardo. Alla voce Talassico corrispondevano sette nomi incolonnati in ordine alfabetico. Nella stanza la penombra era spezzata dall'illuminazione che arrivava dalla strada; le luci giallastre dei lampioni si mischiavano al verde del prato luminoso proiettato dalla TV sintonizzata su di una partita dei sedicesimi di coppa Italia. A tentoni mi attaccai al telefono e composi lentamente il numero. Quando il LA del telefono iniziò a risuonare provai una strana sensazione di vergogna, un piccolo cedimento temporaneo. In un attimo di lucidità, riuscii anche ad appurare quanto fosse assurda quell'azione, odiai per un'attimo quella nostalgia infantile. Riattaccai la cornetta prima che dall'altro capo qualcuno potesse rispondermi, il silenzio era rotto solo dal ronzio monocorde di quella telecronaca soporifera, diedi un occhio alla TV scorgendo appena l'azione caparbia di un terzino impertinente nell'aria avversaria.

Il muro di cemento che circondava gli spalti in tubolari di ferro e il campo da gioco in terra battuta, era pieno di scritte d'amore, di insulti e disfide calcistiche che io non potevo capire e i cui destinatari potevo solo immaginare. I fari dello stadio erano stati spenti non da molto, un bagliore fioco, simile a quello di una candela imprigionata dalle dita per essere smorzata, colorava ancora il bussolotto in vetro delle lampade alogene. Una nebbia densa avvolgeva i capannoni e i depositi che circondavano l'impianto sportivo. Dalla nebbia appoggiata sull'asfalto corroso dello spiazzo antistante l'ingresso emergevano solo il corpo rettangolare del botteghino e un'automobile parcheggiata di fianco al cancello. L'auto ondeggiava in modo quasi impercettibile, un movimento che i miei occhi quasi non vedevano, ma che sembrava arrivarvi subliminalmente ad ipnotizzarmi. Mi avvicinai a piedi e con discrezione all'auto in sosta. I vetri dei finestrini erano tanto appannati che non mi era possibile vedere quello che stava accadendo all'interno. Pur capendo che chiunque giacesse all'interno non aveva voglia di farmi partecipe della loro attività, strofinai infantilmente la mia mano contro il vetro umido del finestrino. Una forma compatta, ma offuscata da quel filtro opaco, si muoveva a scatti coprendo completamente una cosa che sembrava un corpo accovacciato sul sedile posteriore dell'automobile. Le scritte bianche S.S.C. Viribus Unitis e Discount Polletti, erano appena leggibili sul dorso di quella che mi sembrava una giacca a vento blu. 
La macchina sobbalzò e io iniziai a correre. Prima che potessi raggiungere la portiera della mia auto qualcosa mi afferrò alle caviglie e per un attimo pensai ai poveri animali stretti nelle tagliole di cacciatori senza anima. L'attimo dopo mi ritrovai steso a faccia in giù nel parcheggio del campo da calcio della Viribus.
«FROCIO...FROCIO» gridava qualcuno che non riuscivo a vedere «ti faccio ingoiare il cazzo, pervertito di merda, guardone succhiacazzi.»
Le imprecazioni mi arrivavano insieme agli schiaffi sulla nuca e ad una forte stretta alla collottola che mi sembrava di sentire sin dentro le tempie. L'asfalto era maculato da vecchie chiazze di olio bruciato sgocciolato da testate usurate di automobili precedentemente lasciate in sosta nel parcheggio, l'olio era penetrato nello strato appena sottostante a quello superficiale dell'asfalto e la mano del mio aggressore mi costringeva ad un contatto ravvicinato col viscido delle pietre del selciato. In quella posizione riuscivo a percepire le minime vibrazioni prodotte dai passi ammantati di gomma di una nuova persona. L'altro occupante dell'automobile arrivò su di noi e, con un calcio allo stomaco, mi costrinse a guardare in alto verso il suo volto offuscato dalla nebbia e dal dolore. Adesso a sovrastarmi erano in due. Entrambi erano abbigliati da sportivi, entrambi erano di sesso maschile, entrambi avevano l'aria incazzata e una nuvola di vapore che si materializzava dalle narici, ma solo uno di loro era Riccardo il mio amico d'infanzia.
«Cosa cazzo ci fai qua?» disse «Come diavolo ti passa in testa di venire qua.»
Restai a guardarli dal basso, per un'attimo fui tentato di spiegare a Riccardo della mia propensione alla nostalgia, ma mi trattenni dal farlo. Poi qualcuno mi colpì alla testa.

A giudicare dal colore e dal taglio di capelli, dalla postura della testa e della nuca, potevo anche avere l'impressione di essere ritornato ai tempi della leva e quello poteva essere uno dei tanti viaggi in una delle jeep dell'esercito; non c'erano altri indizi che mi potevano aiutare a comprendere dove fossi tranne il rumore basso e costante del motore e i sobbalzi della strada. I dettagli di ciò che era accaduto mi si presentarono dopo qualche istante corredati di un emicrania spaventosa. Nell'attimo in qui presi coscienza capii che ero seduto sul sedile posteriore della stessa auto dove, chi sa quanti minuti prima, Riccardo e il suo amichetto stavano assaporando furtivamente i piaceri carnali del loro amore, provai a scappare nonostante le mani e piedi legati da lunghi lacci neri che odoravano di strutto. Alla radio una litania insopportabile si interrompeva ogniqualvolta attraversavamo delle zone semi deserte.
«Dove volete portarmi?»
«Sta zitto!»

Quel mese di novembre non ci furono denunce di rapimento. Ci furono rapine ed estorsioni. Ci furono due sparatorie. Ci fu un evasione di gruppo dalla casa mandamentale. Ci furono delle anomale rapine ad alcuni camion carichi di carciofi. Ci furono sette morti per infarto e due suicidi. Ci fu l'avvistamento di un topo gigante. Il trenta di novembre però, in un articolo sulla pagina di sport, corredato di immagine fotografica ritraente l'intera squadra di calcio della S.S.C. Viribus Unitis, un giornalista esaltava le gesta di Riccardo Passarello difensore centrale non più giovanissimo ma ancora in grado di innalzare da solo un muro invalicabile davanti alla porta difesa dal numero 1 della Viribus e di prendersi l'onere di battere un calcio di rigore al novantesimo.


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