mercoledì 8 febbraio 2012

winter guest II


chair king: anche in caso di abbondanti nevicate.
Giulia Pes scrive una storia per Chair King


























Sere quasi tutte uguali

Teresa stasera esce. É in ritardo, ha detto a Petra di non preoccuparsi, di aspettarla dentro, che arriva.
Il circolo “Anna K” é fuori dal centro, in una laterale vicino alla stazione, zona di condomini grigi, parrucchieri afro e agenzie di viaggio con i poster delle Mauritius. Per raggiungere il civico 38 Teresa deve svoltare in fondo alla strada, seguirne la curva, come l’ansa di un fiume scuro, e superare un’osteria. Una scritta blu dice “da Lucia”, la porta di tanto in tanto si apre e ne esce un ribollire di voci maschili. Appena oltre, la strada torna silenziosa e buia. Il posto é un locale ARCI di Udine, che di giorno ha le saracinesche abbassate, ma di sera, dietro le grandi vetrate e le tende gialle a righe, le luci sono sempre accese. Attaccati dall’interno con lo scotch, i manifesti delle campagne per i diritti degli omosessuali impediscono di guardare dentro, nella stanza al piano terra di una palazzina anni sessanta bicolore, senape e ocra.
Ha lasciato la bambina a casa, la vicina le terrà compagnia fino alle undici poi, forse, proverà a cercarla. Lei avrà guidato fino alla campagna, verso Campoformido, dove nella mattinata troveranno il suo corpo. Spinge la porta ed entra. Non c'è molta gente, ma il locale é piccolo e si é già riempito. Molti sono in piedi nella zona bar, i pochi tavoli di formica colorata, verde, blu e viola con le sedie abbinate, sono tutti occupati. C’é un gran vociare, la stanza dà un leggero rimbombo, il soffitto é ribassato, diviso in quadrati bianchi di cartongesso. Sulla parete lunga sono ancora appesi il manifesto per il 25 aprile e il poster di Pasolini. Teresa passa lo sguardo su ogni cosa, come se non fosse lì e quel posto le mancasse. Alla sua destra c’é il bancone di muratura dietro al quale un uomo alto appoggia sul piano bicchieri colmi di vino rosso senza pretese. Un foglio azzurro scritto a penna dice “sangria”. Teresa annusa l’odore accogliente di vecchia cucina. A Giulia, una volta, quell’uomo ha preparato un toast guarnito di salsa rosa e ci ha piantato al centro un ombrellino da cocktail. Trattamento speciale per le bambine.
Petra é in piedi in mezzo alla stanza, con un ragazzo. Carino.

- Ti ricordi di Matteo? Mi stava raccontando del suo cane.

Lui si volta a guardarla, la fissa per un istante, prima di stringerle la mano.

- Hai un cane? - riesce a dire Teresa.
- Si, beh, lui ha me, in verità. Me lo sono trovato in giardino! Quando l’ho visto, accucciato sotto una siepe, mi sono avvicinato e lui mi ha preso la mano tra le zampe e ha cominciato a leccarmela. Non ho avuto il cuore di cacciarlo.
- So cosa intendi...
- Ho messo in giro la sua foto, ho telefonato ai veterinari, ma nessuno é venuto a reclamarlo. É mio, diciamo. Anzi, se senti di qualcuno che ha perso un cane in zona Baldasseria, tu non ne sai niente!
Teresa ride. 
- A Giulia piacerebb...
- Come?
- A patto che me lo fai conoscere!
- Volentieri.
Matteo ha un sorriso dolce. Una donna con i capelli arruffati lo chiama dalla porta.
- Scusa, tra poco si comincia. Ci vediamo di là.

Sparisce nel muro di schiene della gente al bar.
Stasera ci sarà un concertino, jazz manouche, che in realtà, Teresa, non sa bene cosa sia. Matteo suona la chitarra, dicono che sia molto bravo, insegna in una scuola. Aveva una cotta per lui da ragazzina. Era il più bello tra quelli che conosceva. Se lo ricorda con i capelli chiari, lunghi fino alle spalle, il sorriso largo, due piccole rughe agli angoli della bocca. Lui non l’aveva mai notata, era andato a studiare fuori e non tornava quasi mai. Ora é lì, lo stesso sorriso. Sente l’impronta delle sue dita sul dorso della mano che le ha stretto.
Una fitta le blocca lo stomaco. Il veleno che ha preso sta cominciando a fare effetto, prima del previsto. Scaccia il brivido, mentre Petra ricompare.

- Dov’eri? Andiamo, tra poco comincia!

Matteo suona sottovoce nell’altra sala. Prova qualche giro di accordi, lascia che le mani vadano da sole, ascolta quello che ne esce. Qualcosa l’ha turbato, lo percepisce come un’interferenza. La stanza é in penombra, illuminata solo da un piccolo faro acceso per il concerto, puntato sul soffitto in modo che la luce sia diffusa e crei un’atmosfera intima. Il risultato non é ben riuscito, l’ambiente resta freddo, il sottile tappeto verde steso a coprire il pavimento di marmo e le tende scure appese per l’occasione hanno un’aria precaria.
Le corde vibrano sotto le dita, lo tranquillizzano. Matteo osserva le decorazioni alle pareti. Alcuni fili di lana colorata sono tirati da piccoli chiodi piantati nel muro, disegnano linee spezzate, che si incrociano e si allontanano. Ricordano la skyline di una metropoli, così come può disegnarla un bambino. Sulla pittura bianca, in una calligrafia ordinata, alcune frasi sono state scritte con un pennarello nero. Aforismi. L’idea non é brutta, ma nell’insieme appare come un tentativo svogliato di riempire un vuoto, senza allegria né originalità.
Una delle ragazze del circolo, Miriam, gli fa un cenno, sta per presentarlo al pubblico. Ferma le corde. La gente entra e riempie la stanza. Appoggiata alla parete di sinistra, in piedi, c’é Teresa. Si sente di nuovo nervoso. Miriam dice poche cose, niente di formale, coloro che hanno occupato le sedie sono degli habitué. La musica comincia. Per una buona mezzora Matteo esplora a caso il repertorio di danze zingare, dimenticando la scaletta che si era preparato, canta qualche pezzo swing francese degli anni quaranta. Il pubblico batte il piede sul pavimento, muove la testa a ritmo, applaude forte. Matteo di tanto in tanto controlla il muro di sinistra e Teresa é sempre lì, lo guarda e non applaude. Sorride debolmente e tiene le mani giunte.
Buio. Un verso di sorpresa si gonfia nella stanza. La voce di Miriam invita a stare fermi, potrebbe essere il contatore generale, ogni tanto salta. Matteo non si ferma, suona Minor Swing, adesso, di Django Reinhardt, in acustico, a quanto pare e alla cieca. Dopo qualche istante la piccola folla torna silenziosa, a parte qualche risatina nervosa, chi conosce la canzone schiocca le dita a tempo, avvolto nell’oscurità. L’aria nella stanza sembra più consistente, gli occhi si abituano al buio. A Matteo pare di essere tornato bambino, quando con suo fratello si nascondeva sotto una coperta. Un odore buono gli arriva al naso. Guarda nell’oscurità in direzione di Teresa, in un qualche modo suona per lei, per lei soltanto, nel buio.
Dopo alcuni minuti il faro si riaccende, tra mugolii di protesta, la stanza torna rumorosa.

- Facciamo una pausa di dieci minuti. - annuncia Miriam.

Matteo afferra la chitarra per il manico e la appoggia sulla sedia al suo fianco. É allora che nota un biglietto bianco, piegato a metà, infilato tra le chiavette. Lo sfila, lo apre e legge. Si guarda attorno, si alza e corre in strada, fa qualche passo verso l’osteria, poi verso il sottopassaggio, si pente e torna indietro, nelle mani ha il biglietto:
Devo proprio andare.
Peccato.
Suoni davvero bene.
Teresa.”


Giulia Pes 

1 commento:

AbdoneBruno ha detto...

Hi, I agree with you. Really this blog is very informative.





bar chairs