chair king: anche in caso di abbondanti nevicate.
Giulia Pes scrive una storia per Chair King
Sere
quasi tutte uguali
Teresa
stasera esce. É in ritardo, ha detto a Petra di non preoccuparsi, di
aspettarla dentro, che arriva.
Il
circolo “Anna K” é fuori dal centro, in una laterale vicino alla
stazione, zona di condomini grigi, parrucchieri afro e agenzie di
viaggio con i poster delle Mauritius. Per raggiungere il civico 38
Teresa deve svoltare in fondo alla strada, seguirne la curva, come
l’ansa di un fiume scuro, e superare un’osteria. Una scritta blu
dice “da Lucia”, la porta di tanto in tanto si apre e ne esce un
ribollire di voci maschili. Appena oltre, la strada torna silenziosa
e buia. Il posto é un locale ARCI
di
Udine, che di giorno ha le saracinesche abbassate, ma di sera, dietro
le grandi vetrate e le tende gialle a righe, le luci sono sempre
accese. Attaccati dall’interno con lo scotch, i manifesti delle
campagne per i diritti degli omosessuali impediscono di guardare
dentro, nella stanza al piano terra di una palazzina anni sessanta
bicolore, senape e ocra.
Ha
lasciato la bambina a casa, la vicina le terrà compagnia fino alle
undici poi, forse, proverà a cercarla. Lei avrà guidato fino alla
campagna, verso Campoformido, dove nella mattinata troveranno il suo
corpo. Spinge la porta ed entra. Non c'è molta gente, ma il locale é
piccolo e si é già riempito. Molti sono in piedi nella zona bar, i
pochi tavoli di formica colorata, verde, blu e viola con le sedie
abbinate, sono tutti occupati. C’é un gran vociare, la stanza dà
un leggero rimbombo, il soffitto é ribassato, diviso in quadrati
bianchi di cartongesso. Sulla parete lunga sono ancora appesi il
manifesto per il 25 aprile e il poster di Pasolini. Teresa passa lo
sguardo su ogni cosa, come se non fosse lì e quel posto le mancasse.
Alla sua destra c’é il bancone di muratura dietro al quale un uomo
alto appoggia sul piano bicchieri colmi di vino rosso senza pretese.
Un foglio azzurro scritto a penna dice “sangria”. Teresa annusa
l’odore accogliente di vecchia cucina. A Giulia, una volta,
quell’uomo ha preparato un toast guarnito di salsa rosa e ci ha
piantato al centro un ombrellino da cocktail. Trattamento speciale
per le bambine.
Petra
é in piedi in mezzo alla stanza, con un ragazzo. Carino.
-
Ti ricordi di Matteo? Mi stava raccontando del suo cane.
Lui
si volta a guardarla, la fissa per un istante, prima di stringerle la
mano.
-
Hai un cane? - riesce a dire Teresa.
-
Si, beh, lui ha me, in verità. Me lo sono trovato in giardino!
Quando l’ho visto, accucciato sotto una siepe, mi sono avvicinato
e lui mi ha preso la mano tra le zampe e ha cominciato a leccarmela.
Non ho avuto il cuore di cacciarlo.
-
So cosa intendi...
-
Ho messo in giro la sua foto, ho telefonato ai veterinari, ma
nessuno é venuto a reclamarlo. É mio, diciamo. Anzi, se senti di
qualcuno che ha perso un cane in zona Baldasseria, tu non ne sai
niente!
Teresa
ride.
- A Giulia piacerebb...
-
Come?
-
A patto che me lo fai conoscere!
-
Volentieri.
Matteo
ha un sorriso dolce. Una donna con i capelli arruffati lo chiama
dalla porta.
-
Scusa, tra poco si comincia. Ci vediamo di là.
Sparisce
nel muro di schiene della gente al bar.
Stasera
ci sarà un concertino, jazz manouche, che in realtà, Teresa, non sa
bene cosa sia. Matteo suona la chitarra, dicono che sia molto bravo,
insegna in una scuola. Aveva una cotta per lui da ragazzina. Era il
più bello tra quelli che conosceva. Se lo ricorda con i capelli
chiari, lunghi fino alle spalle, il sorriso largo, due piccole rughe
agli angoli della bocca. Lui non l’aveva mai notata, era andato a
studiare fuori e non tornava quasi mai. Ora é lì, lo stesso
sorriso. Sente l’impronta delle sue dita sul dorso della mano che
le ha stretto.
Una
fitta le blocca lo stomaco. Il veleno che ha preso sta cominciando a
fare effetto, prima del previsto. Scaccia il brivido, mentre Petra
ricompare.
-
Dov’eri? Andiamo, tra poco comincia!
Matteo
suona sottovoce nell’altra sala. Prova qualche giro di
accordi, lascia che le mani vadano da sole, ascolta quello che ne
esce. Qualcosa l’ha turbato, lo percepisce come un’interferenza.
La stanza é in penombra, illuminata solo da un piccolo faro acceso
per il concerto, puntato sul soffitto in modo che la luce sia diffusa
e crei un’atmosfera intima. Il risultato non é ben riuscito,
l’ambiente resta freddo, il sottile tappeto verde steso a coprire
il pavimento di marmo e le tende scure appese per l’occasione hanno
un’aria precaria.
Le
corde vibrano sotto le dita, lo tranquillizzano. Matteo osserva le
decorazioni alle pareti. Alcuni fili di lana colorata sono tirati da
piccoli chiodi piantati nel muro, disegnano linee spezzate, che si
incrociano e si allontanano. Ricordano la skyline di una metropoli,
così come può disegnarla un bambino. Sulla pittura bianca, in una
calligrafia ordinata, alcune frasi sono state scritte con un
pennarello nero. Aforismi. L’idea non é brutta, ma nell’insieme
appare come un tentativo svogliato di riempire un vuoto, senza
allegria né originalità.
Una
delle ragazze del circolo, Miriam, gli fa un cenno, sta per
presentarlo al pubblico. Ferma le corde. La gente entra e riempie la
stanza. Appoggiata alla parete di sinistra, in piedi, c’é Teresa.
Si sente di nuovo nervoso. Miriam dice poche cose, niente di formale,
coloro che hanno occupato le sedie sono degli habitué. La musica
comincia. Per una buona mezzora Matteo esplora a caso il repertorio
di danze zingare, dimenticando la scaletta che si era preparato,
canta qualche pezzo swing francese degli anni quaranta. Il pubblico
batte il piede sul pavimento, muove la testa a ritmo, applaude forte.
Matteo di tanto in tanto controlla il muro di sinistra e Teresa é
sempre lì, lo guarda e non applaude. Sorride debolmente e tiene le
mani giunte.
Buio.
Un verso di sorpresa si gonfia nella stanza. La voce di Miriam invita
a stare fermi, potrebbe essere il contatore generale, ogni tanto
salta. Matteo non si ferma, suona Minor Swing, adesso, di Django
Reinhardt, in acustico, a quanto pare e alla cieca. Dopo qualche
istante la piccola folla torna silenziosa, a parte qualche risatina
nervosa, chi conosce la canzone schiocca le dita a tempo, avvolto
nell’oscurità. L’aria nella stanza sembra più consistente, gli
occhi si abituano al buio. A Matteo pare di essere tornato bambino,
quando con suo fratello si nascondeva sotto una coperta. Un odore
buono gli arriva al naso. Guarda nell’oscurità in direzione di
Teresa, in un qualche modo suona per lei, per lei soltanto, nel buio.
Dopo
alcuni minuti il faro si riaccende, tra mugolii di protesta, la
stanza torna rumorosa.
-
Facciamo una pausa di dieci minuti. - annuncia Miriam.
Matteo
afferra la chitarra per il manico e la appoggia sulla sedia al suo
fianco. É allora che nota un biglietto bianco, piegato a metà,
infilato tra le chiavette. Lo sfila, lo apre e legge. Si guarda
attorno, si alza e corre in strada, fa qualche passo verso l’osteria,
poi verso il sottopassaggio, si pente e torna indietro, nelle mani ha
il biglietto:
“Devo
proprio andare.
Peccato.
Suoni
davvero bene.
Teresa.”
Giulia Pes
1 commento:
Hi, I agree with you. Really this blog is very informative.
bar chairs
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