domenica 10 ottobre 2010

Brianza

 




















Si era da poco passata la mano sulla faccia, gli occhi non riuscivano a stargli su. La testa gli si inclinò sulle ginocchia, si appoggiò restando ferma, immobile. Aveva ancora il drink nella mano destra, con una gravitazione che non riuscivo a spiegarmi, il liquido rosso al suo interno restava calmo al limite del bordo del bicchiere; era incosciente, ma non avrebbe mai voluto macchiare la sua camicetta bianca. Volevo solo dormire accovacciato sul marciapiede. Un cane ci ronzava di fianco annusando e leccando il suo stesso vomito. Uno dei miei occhi si apri; il drink le si era rovesciato addosso, ed ora, una chiazza magenta si allargava tra la camicia e la gonna a pieghe azzurre.
- Svegliati andiamo, piove.
- Lasciami qui.
Eravamo stati in tanti, troppe persone tra i coglioni a cantare e bere come degli adolescenti, adesso da soli non sapevamo come ritornare indietro. L'hangar su cui poggiavamo le nostre schiene emetteva mugugni di fine festa, voci e rumori di metalli sbattuti senza cura. La pioggia mi colpiva; gocce grosse quanto secchi mi inzuppavano i capelli e la giacca, ma non riuscivano a riportarmi cosciente.
- Cazzo dico, ma non vedi? - urlò.
- Cosa? Che..
Si era accorta della sua macchia; l'insolenza dell'acqua piovana sembrava non poter competere con la fatalità di quel drink versato. 
- Sei ubriaca.

Guardava dalla finestra e rideva, aveva sbagliato a scegliere il cappotto e adesso se ne pentiva. Uscendo di casa si era accorta dell'errore; si era accorta anche che le scarpe le si sarebbero inzuppate, ma per pigrizia e per non inficiare l'abbinamento, aveva scelto di lasciare le cose così come erano. Una luce rossa brillante si sdoppiava producendo due cuspidi riflesse sul grigio-nero dell'asfalto, lei seguì la traccia sino alla sua disparità. L'auto era entrata nel garage sotterraneo, un gallo ticchettava con le sue unghie arcuate sul pavimento del suo piccolo pollaio recintato e coperto. La pioggia schermava la luce sino ad inibirne del tutto le capacità di irradiamento, la mattina si era inoltrata in una giornata lavorativa immobile e sua sorella non si era fatta ancora viva.

Il pollice al vento avrebbe dovuto attrarre qualche automobilista non impaurito dagli strilli allarmisti della comunicazione televisiva. Eravamo bagnati, lei tremava  a tal punto da sembrare a rota, l'appuntamento era saltato, ma lei sembrava non pensarci. La camicetta era oramai piena di macchie, la polvere di Milano stava tutta sui nostri panni fradici. Il camion rallentò sino a fermarsi quattro metri più avanti; scattai per raggiungerlo; ci avrebbe portati in città. Il camionista sembrava non badare al nostro stato, continuava a parlare al baracchino senza fare attenzione al nostro tremolio. La tangenziale intasava nella notte le nostre speranze di riuscire ad arrivare in tempo; le parole della radio si accavallavano con quelle dei due camionisti in contatto tra loro.

Il gel era freddo, un colpo di tosse le uscì dal profondo. L'indagine di quegli ultrasuoni  echeggiava  senza produrre rumori, ma trasformando onde in immagini contratte e palpitanti. Un cristallo piezoceramico era incastrato nella sonda che le mani gracili di Marianna tenevano a diretto contatto con la pelle di Clara. Il gel continuava ad essere freddo, ma necessario.
Il segnale di ritorno, opportunamente elaborato da un computer presentava su quel monitor 14 pollici l'immagine del nostro bambino. Trattenni a fatica un conato di vomito, stavo per diventare papà.

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