giovedì 17 giugno 2010

Macrolotto/Prato















Le sue dita strofinavano quei capi con movimenti sempre uguali, le mani tracciavano delle traiettorie invisibili su quella stoffe dozzinali e colorate. Movimenti di cui non capivo la funzionalità, gesti che pensavo essere cure parietali rivolte all'oggetto del suo lavoro. Quando entrai per la consegna la donna era quasi del tutto nascosta dalla colonna di grucce dalle quali pendevano i vestiti che lei lisciava col palmo della mano.  Erano le due di notte, ma la selva dei capannoni illuminati era percorsa da camion, furgoni e automobili. La vita sembrava seguire una circolazione inconsueta per quelle ore, i marciapiedi erano deserti, ma ad ogni slargo baracchini tirati su con strutture in alluminio anodizzato e ricoperti di teli in PVC si ergevano a ristoro per i lavoratori notturni. La presenza di uomini chini sulle loro zuppe e i gorgoglii dei loro risucchi, animava con sequele sonore non verbali quelle strutture mobili dell'alimentazione notturna. La borsa in nylon che avevo portato era tanto capiente da evitarmi ulteriori viaggi in quel posto. Il gesto di lambire col palmo e con il dorso della mano le stoffe mi apparve come una deformazione professionale; un inconscia voglia di tastare il soggetto dei propri sforzi. La donna si muoveva tra migliaia di abiti cercando sempre di strusciare le sue dita da un orlo all'altro, le sue braccia eseguivano un movimento semicircolare tanto armonico da sembrare perpetuo. Fiducioso di poter concludere in fretta quello scambio di tarda ora seguivo con sguardo distratto i tacchi in gomma della donna alzarsi con un ritmo regolare. Ai margini del cono ottico riuscivo a percepire il movimento orbicolare del suo braccio proteso verso gli stender appendiabiti disposti a formare colonne simili a muri di stoffa. All'esterno il buio era rotto solo dai coni di luce giallastra dei lampioni che proiettavano dischi regolari su di un selciato frammentato e ipnotico. L'inseguimento muto e chino si interruppe solo quando mi accorsi di essere penetrato all'interno di uno dei chioschi dei ristoratori ambulanti. L'assorbimento di notevoli quantità di brodo e spaghetti di soia, produceva una diffusione verticale di schizzi incolore; la donna mi invitò a prendere posto ad un tavolo di plastica e io obbedì. Ero l'unico non cinese in quel luogo, forse, anche allargando il raggio a un paio di chilometri da quel gazebo di alluminio impacchettato dal cloruro di vinile, sarei rimasto l'unico non cinese.  Il bancone in vetro e metallo del baracchino, illuminato da un neon bianco introno a cui si accanivano stupide falene, era zeppo di pietanze che non avevo mai visto in vita mia. Una varietà inconsueta di animali cotti secondo procedure non legate all'immaginario che l'occidente ha della ristorazione cinese. Anatre laccate dal colore quasi ebano, si accatastavano le une sulle altre a formare una piramide regolare di volatili stecchiti. Delle striscioline sottili di carne rossa rinsecchita a forma di forbice con relativa impugnatura, attrassero da subito la mia attenzione, chiesi alla mia accompagnatrice la provenienza animale di quella carne e lei, in perfetto italiano disse:
- anatra, lingua d'anatra.
- Cosa mangiamo? - chiesi -
- Non sei obbligato a consumare cibo qui - disse la donna - voi occidentali non mangiate queste cose, a voi piace diversamente.
- Io voglio provare - replicai.
La mia decisione venne assecondata senza rimostranze, la donna si volto verso il bancone e ordinò immediatamente per entrambi, per poi ridare le spalle alla banconista  e chinare leggermente il capo verso di me in un casto cenno di assenso.
- Quante etichette sono?
- Tante.
Arrivarono due grosse ciotole in terracotta di forma semisferica, due contenitori capienti e profondi empi di un'ammasso bianchiccio, di fianco alla ciotola un oggetto ovoidale di colore giallognolo e dal guscio irregolare, ricoperto di quelli che a me sembravano trucioli di legno.
- Cosa sto per mangiare?
- Insalata di medusa e uovo dei centanni. Deve sapere che questo è un uovo di anatra, ma da noi viene conservato secondo un rituale preciso, il guscio viene avvolto da cenere, calce e argilla, passato nel sale e cosparso di trucioli di legno. Questo conserva le uova per cento anni.
Rotto il guscio, mi ritrovai di fronte ad una specie di frammento minerario; un ovetto nero e brillante il cui tuorlo si era marmorizzato acquisendo colori stratificati su linee circo centriche. Lo assaggiai intingendone alcuni spicchi nella salsa di soia, feci allo stesso modo con la medusa, che mi scivolò in gola come un grumo gelatinoso per dolci.
- Questa è la Cina - disse la donna - spaghetti pomodoro, niente contratto e solo soldi; bè questa…
La donna si interruppe; la frase fini con un laconico sorriso coperto da quelle stesse mani che accarezzavano i tessuti; il mio subappalto era in quella borsa di nylon, etichette da applicare in cambio di silenzio e a questo, ne ero certo, non ci pensava solo la Cina.

Nessun commento: