venerdì 16 luglio 2010

Aversa II


 















Un uomo sui sessanta con un prominente gonfiore addominale, vedendomi si portò la mano al cappello inclinando la visiera e socchiudendo leggermente gli occhi. In quello sguardo c'era tutta una serie di richieste che io declinai ruotando nell'aria a modo di mulinello il mio dito indice.

A disposizione capo - fece eco l'uomo, mostrando d'aver compreso il gesto -

Il sole non dava tregua ai rifiuti disparsi in quel parcheggio senza regole e indirizzo, facendo sì che, ogni piccolo residuo di materiale biologico e deperibile, esalasse putridi lezzi a loro volta mescolati, con la cappa da idrocarburi derivanti dagli scappamenti delle molte automobili della mobilità viaria cittadina ordinaria. Attraversare quella lingua d'asfalto, incastrata tra alberi avvizziti e padiglioni scrostati, comportava un'esposizione a tossicità fuori da parametri legislativi. L'imbocco delle scale che dal parcheggio portava al reparto di otorino laringoiatria, era posto di fianco al pronto soccorso; una porta in alluminio anodizzato corredata di maniglione antipatico, permetteva l'ascesa ai reparti attraverso una rampa di scale originariamente destinata al solo personale medico paramedico, ma successivamente  abusata e aperta ai visitatori ordinari. L'operazione era stata fissata per le 13:00; pur non avendo un'orologio riuscivo ad intuire quasi fisiologicamente che quell'ora era già abbondantemente passata. I pianerottoli erano un insieme di residui accatastati di materiali precedentemente destinati a funzioni d'emergenza. Estintori (quasi sicuramente vuoti) erano riversi a testa in giù e accoglievano nel fondo incrostazioni di cenere da tabacco con relativi filtri in acetato di cellulosa. Frammenti di vetro arancione (originariamente destinati a serrare il cubicolo del manicotto antincendio) venivano usati in qualità di fermoposta o zeppe, per le uscite d'emergenza dei diversi reparti. L'ascesa fu alquanto difficoltosa, la disposizione dei gradini sembrava richiedere un passo alto, al mio metro e sessantatre di statura quell'operazione risultava ardua e di lì a poco non mancarono di manifestarsi i relativi affaticamenti. Il quarto piano era l'unico - tra quelli attraversati - ad essere animato da una presenza di pazienti girovaghi; appollaiati, ogni uno in maniera disorganica, sulla soglia delle loro stanze di degenza osservavano la pochezza di quell'umanità ridotta alla degenza. Le camerette, da due e da quattro letti, erano completamente rivestite da una pellicola vinilica di color celeste, ogni letto era dotato di rotelle e leve per la sospensione o la reclinazione del materasso. Alla stanza ventiquattro trovai solo qualche santino e un mucchio di lenzuola sgualcite, rivolgendomi alla donna che pensavo fosse la caposala chiesi di mia madre scandendone nome e cognome, questa, annoiata e pronta a lasciare il suo turno di lavoro, mi rispose non abbandonando la svestizione dagli abiti professionali.

La signora è in sala; - operatoria? pensai io - può aspettarla qui oppure farsi un giro.

Annuii con la testa cercando di rassicurare l'infermiera a fine turno della mia disposizione ad aspettare lo svolgere degli eventi; accomodatomi su di uno sgabello lasciato incustodito tra l'incrocio di due corsie, iniziai ad osservare le dinamiche e le sfumature di quel tempio dedito alla cura dei malanni.
Una donna parlava assiduamente al cellulare cercando di confortare il suo interlocutore sul buon esito dell'intervento chirurgico di una loro - a quanto pare - congiunta, un'altra ragazza, invece, stretta dall'affetto smodato di un manipolo di amici accalcati sul suo letto, raccontava delle sue vecchie esperienze vacanziere, rammaricandosi del fatto che la degenza potesse impedirle di ripetere tali momenti di relax. Il grigio ghiaccio dei fogli di pellicola ceramizzante che ricopriva perimetralmente la corsia, e l'aria condizionata dalle gradazioni invernali, rendevano la luce e la temperatura interna di quel posto irreale, trasformando il calore e la luce del sole incidente del quarantunesimo parallelo, in qualcosa di più simile alle atmosfere ambientali da clima continentale.
Uno strepitio di passi, qualche urlo d'incitamento e poco più, era invece l'attività ascrivibile al personale medico sanitario. Infermieri, medici, barellisti, portantini, inservienti, si confondevano in un caleidoscopio di camici che andavano dalle tinte del verde bottiglia sino ai bianchi corredati di macchie.

Qua non puoi stare - mi disse un'uomo che aveva lo stesso camice di un'altro, ma che a differenza di quell'altro non aveva uno stetoscopio a denunciarne la professione di medico - non si può stare in corsia seduti, puoi dare fastidio, vattene in camera ad aspettare.

Senza aspettare ne una mia replica, ne l'adempimento a quella prescrizione, l'uomo continuò il suo sfaccendato viaggio verso il nulla. Mi scostai verso la rampa di scale e quasi senza accorgermene ridiscesi. Spinto da un moto nervoso, dettato dalla spasmo dell'attesa piuttosto che dalla necessità di discesa in direzione di qualcosa, saltellai meccanicamente sino al pianerottolo del piano sottostante.  La porta al piano inferiore era aperta: senza motivo mi ci addentrai. Un uomo con due guanti inzaccherati di sangue era poggiato al muro mentre cercava di prendere un caffè alla macchinetta automatica sfrorzandosi di non toccare il bordo del bicchiere.

Lei è un parente? - mi disse - lo guardai e senza pensare alla domanda risposi:
Si
Mi dispiace ma dovremmo amputare la gamba.
Ma mia madre è qui per dei calcoli biliari - protestai senza troppa forza -
Allora mi scusi - fece, tornando indifferente a bere quel liquido nero bollente -

Risalii nuovamente le scale, e appena attraversata la porta che conduceva al corridoio, vidi  mia sorella. Quell'immagine familiare mi fece capire che mamma era uscita dalla sala operatoria, accelerai l'andatura sino quasi a trasformare il passo in corsa e giunsi davanti alla stanza ventiquattro. La stanzetta era piena zeppa di persone, che, senza pensare minimamente allo stato di mia madre, si accalcava a guardare uno spettacolo di cui erano le non protagoniste, ma a cui non avrebbero mai rinunciato. Cercai di farmi strada tra la folla, ma la ressa al capezzale di mia madre era come un corpo impenetrabile fatto di schiene semichiuse disposte a testuggine. Un capogiro poi il dolce abbandono; una sensazione di leggerezza che dal bacino mi trascino in basso senza però, lasciarmi avvertire nessun sintomo dell'attrazione gravitazionale.

Capo.. Capo… - toc toc - Capo … Capo.. tutto bene Capo?

L'uomo del parcheggio mi alitava la sua peperonata mista a un numero imprecisao di sigarette dal tabacco grezzo ad un palmo dal naso, il centro del suo volto entrava ed usciva dalla messa a fuoco di cui i miei occhi erano capaci in quell'istante.

Tutto bene, tutto bene, non vi preoccupate - feci io per rassicurarlo e, passandomi la mano sulla fronte tersa di un sudore gelido, gli chiesi:

Ma dove siamo qua?
All'ospedale - rispose - e dove volevate stare, all'ippodromo?



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