martedì 25 dicembre 2012

Arrivederci e auguri


























Il salotto era poco illuminato; era forse l'ottantaquattro, ma no, a pensarci bene era il novantaquattro l'ultima volta che c'havevo messo piedi: ne avevo un vago ricordo, un'idea che si sovrappose troppo fedelmente alla realtà quando tirammo su le tapparelle, il buio scomparve e la luce rese visibile lo spettacolo delle particelle di polvere danzanti. Non faceva freddo, erano da poco passate le otto del mattino e la nebbia stava per prendere l'ascensore per il nulla. La vecchia voleva tirare fuori il servizio buono; celebrar festa coi cocci del corredo. La giornata perfetta, il momento ideale, la ritirata in famiglia; ad anni di distanza ritornavamo alla stessa tavola, tutti in tregua con le gambe a riposo sotto una pacifica e comune 
tovaglia rossa di proprietà della zia Jole. La luce rende le cose visibili: a scuola ti spiegano che è un fattore fisico di rifrazione e riflessione dei raggi solari sulle superfici degli oggetti; ma senza andare oltre, senza volerci capire tanto, quel giorno mi bastava appurare che i deboli raggi di sole, del 25 di dicembre, mi svelavano cose che non conoscevo. Mentre la zia tirava fuori l'archeologia della sua unione matrimoniale, prematuramente terminata con la morte dello zio, vidi di sbieco la sagoma di un pupazzo. Non ricordavo quella vetrinata, o più probabilmente, la vetrinata non era alla portata della statura dei miei ricordi infantili; era piazzata in alto, oltre i due canonici metri d'altezza, sopra le teste e i tetti di quei mobili che con orgoglio mostravano le forme del lontano boom economico del paese. 
- Lascia stare Ricky  - fece la zia vedendomi incuriosito dal pupazzo - lascia stare, non è il momento di parlare di questo adesso.
Ricky era un pupazzo da ventriloquo, un fantastico pupazzo di cartapesta con tanto di lentiggini e salopette in jeans e se ne stava seduto su di una mensola con la testa appoggiata alla porta a vetro di un piccolo mobiletto.
Il panno che la zia stava usando per spolverare la superficie di piatti e bicchieri, consegnava altre particelle all'ormai affollata danza della polvere. 
- Cosa vuol dire che non è il momento? feci d'improvviso - … cosa si dovrà mai attendere?
- Vuol dire quello che ho detto, che ci sono momenti e momenti per fare le cose e questo non mi sembra quello adattato per spiegarti chi è Ricky… e poi ho troppo da fare con questi maledetti piatti e non posso negoziare pause e preoccupazioni.
Continuai a guardare con gli occhi di un bambino la bellezza spettrale di quel pupazzo imprigionato in una scatola di legno impiallacciato e come un bambino provai a fantasticare sulla sua storia. Ero attratto dal divieto, dalla storia negata, dall'intransigenza con cui la zia si rifiutava di darmi una spiegazione e allora immaginai una scontata carriera da ventriloquo per lo zio, ma anche un'amore impossibile della zia che, in qualità di giovane vedova, non poteva accettare il corpo di un artista girovago e si accontentava del suo pupazzo.
- Tutti crediamo di conoscere il momento giusto, l'attimo in cui le cose devono avvenire, o in cui le cose sono pronte. L'attimo esatto, il momento propizio, quel solo istante nello scorrere del tempo. Vedendo la pellicina staccarsi dal copro dei fagioli spengo la fiamma, oppure, sentendo, ad un certo punto, il sibilo leggero dell'acqua, alzo il ferro da stiro e comincio a stirare. Sono attimi, momenti, secondi che crediamo di poter individuare, di poter prescrivere: sono le scritte che ci consigliano la cottura degli spaghetti, sono i mal di pancia che ti dicono che ne hai avuto abbastanza di un litigio e che é ora di finirla. Sono tutte queste cose, le conosci? Certo che le conosci, sei un uomo ormai e sai anche tu che dobbiamo provare a mettere un punto, dire basta, scrivere questa benedetta fine.
La voce della zia sembrava parte della stanza come la polvere o i mobili gonfiati dall'umido di troppi inverni, sembrava un oggetto d'arredo, perfetta, secca, ben integrata con il giallo paglierino delle pareti, sembrava adatta solo quel salottino fermo in un tempo che non esiste più da anni. La zia era a suo agio, con lo straccio tra le mani e con un piccolo obiettivo mattutino: aveva fatto le sue scelte, aveva trovato i suoi momenti giusti, stava per portare a termine il suo piano, aveva messo da parte gli anni e le attese, i giorni strozzati, i pensieri e le possibilità, ma poi il telefonò squillò, entrambi guardammo la colonna su cui era posizionato e forse, entrambi ci immaginammo la voce e le parole di uno degli invitati; una formale e tranquilla disdetta, tememmo che nemmeno quello, che nemmeno quel natale poteva essere il momento giusto, il momento per mettere la benedetta parola fine sulle triste vicende della nostra litigiosa famiglia.
- Pronto - fece la zia con gli occhi aperti e la mente vigile, dall'altro capo qualcuno sorridente urlò un auguri che sentii anche io, la chiamata proseguì nell'etichetta che il giorno 25 dicembre richiede, io rivolsi nuovamente lo sguardo al povero Ricky, montai su di una sedia e lasciai cadere la catenella che lo teneva imprigionato. La zia mi vide, ma lasciò cadere il suo sguardo ammonitore, d'altronde era natale ed era sembrato ad entrambi che quello fosse  il momento giusto. 







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