Il passaggio a livello
La
sbarra del passaggio a livello si abbasso appena svoltammo nel
vicolo e due macchine si incolonnarono a un passo dal nostro culo.
Massimo voleva fare inversione ma non c'era spazio di manovra e così
dovemmo aspettare.
Spegni sto motore - gli dissi.
L'aria
del mattino sembrava non esser mai arrivata, stavamo in macchina
dalla sera precedente e la luce che adesso filtrava dal parabrezza appariva come l'ennesimo artificio della segnaletica verticale.
Nel
bagagliaio c'erano ancora gli avanzi della cena, tre polli arrosto
col passaporto toscano scampati alla furia della fame notturna. L'eredità era al sicuro sotto la coperta,
adagiata sul sedile posteriore.
Sei
candelabri d'argento, tre quadri pieni di crepe, cose vecchie, ma
sopratutto quattro mazzette di euro che lo zio conservava in casa e
che il notaio mi aveva passato nel palmo della mano destra senza
dirmi nulla se non:
Undicimilasettecentosessanta.
Era
morto solo lo zio, diceva che il Piemonte era la regione più bella
del mondo, ma a nessuno di noi invece, passava per la testa di
andarlo a trovare. Era solo, ma non ci ha fatto pesare la nostra
indifferenza, nel momento della firma, nel momento della stesura
testamentaria gli è venuto in mente il mio nome, il nome del suo
piccolo e unico nipote maschio.
Avevo
chiesto a Massimo di accompagnarmi avevo paura ad andarci da solo,
avevo paura che prima o poi i Garelli - quelli a cui dovevo un sacco
di soldi - m'avrebbero trovato, avevo paura che quell'eredità,
quell'ossigeno, diventasse un'esca troppo ghiotta per quei pescecane.
Mi immaginavo avvinghiato alle mie banconote da cento e da cinquanta
sparire nei succhi gastrici di Sfreggiatiello
e Carminuccio.
Massimo mi dava sicurezza, era uno che non parlava e che per trecento
euro e qualche piatto di porcellana si sorbiva millequattrocento
chilometri.
Il
treno passò di corsa alzando gli stracci e i sacchetti di plastica
accantonati sul lato della strada, quando ne vidi sparire la coda la
luce del semaforo cominciò a lampeggiare. Una campanella con un
tintinnio veloce accompagnava l'ascesa dell'asticella bianca e rossa,
ma in quel momento sentii come uno strano prurito, come se a quel
viaggio, a cui mancavano solo nove chilometri, fosse stata tagliata
la gola di netto. Le due macchine ci affiancarono e i vetri dell'auto
di Massimo schizzarono ovunque, il motore era ancora spento e la
sbarra a metà del suo tragitto. Ci scaraventarono fuori dall'auto
poi avvolsero tutto nella coperta e salirono sulle loro auto, la
sbarra sollevata, la strada spianata, l'aria inaspettatamente fresca.
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