mercoledì 18 maggio 2011

La risoluzione formale del problema del tempo
















Dopo un periodo di pausa
torna chair king ed esce di traccia.

La risoluzione formale del problema del tempo 

Quando voltammo nel vialetto in salita della pizzeria, lui era già là fuori col suo cappello e il suo bocchino, fumava, ma questa non era una novità. Agli archi si mangia a sazietà, non so se sia un posto dove si mangi benissimo, ma certamente si mangia tanto; è incastrato in una pancia concava ricavata nel declivio di una collina, la parete est è quasi del tutto addossata ai sedimenti argillosi ed alle radici degli alberi che trattengono a fatica quella collinetta salvando il ristorante. Il parcheggio è in condivisione, metà per il ristorante metà per la ditta di trivellazioni che, a giudicare dall'ossidazione del braccio metallico della trivella, è da qualche anno che non mette in piedi il suo marchingegno per forare i terreni. Giulio era di fuori, non ci vedevamo tutti insieme da quasi due anni, tutto per colpa mia, per me che sono sempre in giro, che vivo con lo spazzolino nella borsa del computer. Ci vide arrivare - ero in macchina con Giovanna - ma non ci venne incontro, fumava e lo faceva con quella sua posa sbilenca che sembrava parte del paesaggio precario. Sistemammo la macchina al limite della rete metallica tutta forata che divideva la piazzola di sosta in due luoghi destinati alla giacenza di automezzi tanto dissimili tra loro. Scendendo dall'auto vidi che dalla struttura in ferro della trivella mancavano alcuni pezzi, erano stati  dissaldati, oppure tagliati non so, capii a cosa servisse quel buco tra le maglie larghe della rete, anche se non riuscii ad immaginarmi a cosa e a chi, potesse servire quella ferraglia arrugginita. Giovanna era stata molto discreta, il viaggio era passato via quasi senza parole e la radio aveva opposto un muro di fruscio tra due persone con poche cose da dirsi.
- E' arrabbiato - pensai tra me senza dir nulla a Giovanna che intanto camminava tendendo lo sguardo fisso sul selciato corroso di un asfalto oramai senza catrame. Il pestare dei passi al suolo venne poi interrotto dalla comparsa epifanica della Francesca che, plateale come suo solito, mi abbraccio lanciando al celo inni di ringraziamento. In poco meno di qualche istante fummo immersi in una chiassosa atmosfera da rimpatriata che mi fece accantonare i sospetti e le impressioni che avevo avuto incedendo verso Giulio.  
  
Carlo aveva l'occhio barrato e un'alone di betanina che traspariva dalla benda, occhiali da sole neri e capelli grigi e arruffati. Stava attendendo la moglie alla fermata del bus, dopo l'operazione non era più stato in grado di guidare e adesso era completamente dipendente da Gina, sua moglie. Il sole di quel maggio era chiaro, i raggi sbattevano sui calanchi riverberandosi per l'intera vallata, qualche spettro raggiungeva anche Carlo che, sistemandosi le lenti fumé, provava a schermirsi da quel supplizio fuori stagione.

Le pupille le si allargavano ogni volta che alzava lo sguardo dal piatto, le risate di qualcuno in fondo alla sala si mescolava con le parole di qualcun'altra al tavolo di fianco al nostro. Mi guardava e poi guardava tutti gli altri, si fermava qualche istante e poi si riabbassava, sembrava non riuscire a sopportare lo sguardo di nessuno di noi, era quasi pronta ad attendere minuti, forse ore, con la testa tra le gambe ed alzarla solo quando era certa di non essere vista.
- Il niente, il nulla, ogni uno fa per se, ogni cosa al posto proprio, tutti l'acqua del proprio maledetto mulino, niente erba del vicino.
Giulio stava vomitando parole in libertà non riuscendo in nessun modo a mascherare la sua rabbia. Aveva quasi Settanta anni, ma la foga e la voglia d'arrabbiarsi d'un ragazzo. Carlo si guardava intorno come un poveretto, a ben vedere non aveva ragione di sentirsi parte in causa, ma da come si torceva sulla sedia, sembrava che la sfuriata di Giulio fosse diretta proprio a lui.  
- Ma sei il solito vecchio, e che cazzo non la smetti mai - feci ridendo - lascia quattro persone alla loro cena.
- Parli bene te che non sei qua, parli bene te che non sai…
Francesca iniziava a soffrire lo star chiusa, muoveva la testa come un predatore notturno, una civetta, un gufo, forse un barbagianni.
- La torta - disse una cameriera giovane e timida - davanti a chi la metto?
- Mettila nel cesso - fece Giulio.
- Smettila.
- Lasciala qua - fece Francesca indicando lo spazio libero davanti a se.
Era il compleanno di Giovanna, ma la festa non sembrava esserci.
- Porta via sta torta, portala via. Riempimi il bicchiere, anzi, porta la bottiglia.
Giulio fece segno alla giovane di riempirgli il bicchiere, Francesca stava provando ad accendere l'unica candela che stava lì a simboleggiare e il passare degli anni senza però, menzionare la cifra.
- Auguri - fece Francesca porgendo un pacchetto a Giovanna.
- Grazie.
Era un anello scandinavo, un pezzo di legno simile a un tappo montato su di un cerchietto in metallo.
- Mi sa che devo andare.
- Auguri troia.
Carlo continuava a fissare il vuoto, dalla sua benda colava un liquido arancione, me ne accorsi ma non dissi nulla.