giovedì 6 dicembre 2012

La dottrina liberista ispira lo stile comportamentale dell'economia e della finanza



























Arrivarono senza che me ne accorgessi: suole felpate e respiro azzerato, cazzo. A dispetto di una forma fisica non del tutto invidiabile - il capo era calvo e, a giudicare dall'ingiallimento dell'unghia dell'indice della mano destra, un fumatore incallito - agili come capre di montagna sui pannelli in ferro zincato dell'impalcatura. Erano abituati a salire scalette, a scovare, a cercare a seguire e ad annuire a menzogne grosse come le betoniere piene di calcestruzzo, erano spregiudicati o forse solo estremamente coerenti con il loro lavoro di merda. 
Cecilia aveva mal di pancia, le fasi peggiori erano alle spalle, ma non bisognava starsene troppo tranquilli; passava gran parte delle sue giornate a letto, si alzava per andare al cesso o per bere un po di caffè - anche se il medico lo sconsigliava - era al quarto mese e ormai si trattava solo d'essere pazienti. 
La multa fu salata e il balzo sul balcone non bastò a persuadere gli ispettori che eravamo due semplici ladri. Sull'impalcatura c'erano il trapano, le sigarette e quelle maledette persiane tirate giù ci sbugiardavano; per non parlare poi di quei cazzo di pantaloni schizzati di quarzo e ducotone che erano come un'attestato professionale. Quando ebbero finito mi lasciarono tra le mani un foglietto verde che pesava da fare schifo, tutt'intorno non c'era nessuno, alla vista degli ispettori erano scomparsi tutti. Un cantiere fantasma fatto di attrezzi abbandonati e signori con le scarpe impolverate acquattati dietro a silos di malta premiscelata. 
Cecilia aveva ancora le labbra sporche quando feci ruotare la chiave nella serratura di casa. 
- Cosa ci fai qua?
- E tu perché continui a bere caffè?
Poggiai la multa sul tavolo in cucina, non era l'unica cosa da pagare quella settimana, ma di certo quella di cui non avevo voglia di parlare. Non c'era bisogno di dire nulla; Cecilia capì senza che io aprissi bocca, calzò le sue pantofole da sposina bianche su cui resistevano le macchie secche dei primi vomiti della gravidanza  e scomparve sotto le coperte del nostro letto. Entrai anche io in camera, le mie scarpe lasciarono una scia polverosa bianca di cui mi sarei occupato più tardi, stetti un attimo impalato come un idiota poi aprii la bocca ma le parole se ne restarono attaccate al culo, impaurite e senza la forza di uscire allo scoperto. Cecilia emerse dal triplo strato di imbottitura che appesantiva e riscaldava il nostro letto, vedendomi balbettare si mise a ridere scomparendo nuovamente sotto quelle maledette coperte sintetiche. La sua voce uscì poco dopo, ridotta in volume dall'azione fonoassorbente di quel coibendaggio casalingo, ma alla forma non faceva difetto una sola virgola del contenuto:
- Non ho capito perché hai paura, non capisco per quale motivo balbetti, non capisco perché resti lì fermo e non riesci a chiedermi con parole tue quello che il volto dice al posto della tua voce. Quando ci siamo sposati, quando hai voluto che scappassimo, non ho messo sotto una pietra quel giuramento che sapevo essere ne più ne meno che un urlo temporaneo di soddisfazione. No guarda, non un urlo ma un  gridolino, lo stesso che esce dalla bocca dell'adultero e che suona come uno strozzato "t-ti-a-mo" all'orecchio sudato dell'amante tradito. Non esistono promesse che non tengono conto del momento ed è per questo che non esistono promesse, o almeno non ne esistono di indissolubili, incontrovertibili. La migliore non va più in là del tempo necessario alla sua pronuncia, come quella che, con un filo di voce, esce di bocca al morente sul letto da dove sa che non si alzerà mai più. La tua era la promessa dell'entusiasmo, della soddisfazione passeggera, a te sembrava permanente e invece era, nel momento stesso in cui l'hai pronunciata, destinata a morire, muoiono le promesse, così come fanno i passeri prigionieri delle vetrate. Non ti ho mai chiesto d'essere l'uomo di granito, non credo che componendo il numero di mio padre cancellerò parte di quella che tu credi essere la tua dignità. Conosco quelle parole che non dici e credo che non dicendole gli unici a rimetterci saranno i nostri occhi, le nostre gambe i nostri raffreddori, aggravati dal buio, dal freddo e dall'accumularsi delle nostre bollette. Se credi che la dignità non abbia un prezzo, io credo che quel prezzo sia segnato su di un bollettino postale e allora lascia che sia io ad occuparmene, e lascia pure che sia mio padre a pagarla. Ora se esci, se vai via di qua sarò io a chiamarlo e a chiedergli di assumerti, non preoccuparti, non rubiamo nulla, non mettiamo nulla nel saccone, non lanciamo le mani nel cestino delle offerte, lui avrà premura di romperti il culo sui cantieri di lasciarti sputare tutti i denti attaccati alle gengive, ma d'altronde non l'avrebbe fatto ugualmente se non fossimo scappati e non avrebbe fatto lo stesso qualsiasi altro datore di lavoro? Non preoccuparti e non prendertela a male se rido, non rido perché sulla tua faccia c'è lo stesso pallore delle mie nausee, ma rido dell'inutilità della nostra miseria, ora esci per favore e se puoi preparami un caffè e ricordati che anch'io ti amo.

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