giovedì 14 luglio 2011

Valdarno I




































Trilogia Valdarno Parte I

Castelfranco di Sopra

Le fiamme cominciavano a spegnersi e il fumo a salire: era nero, lo si vedeva chiaramente contro il muro in laterizio. Una scia di fuliggine aveva già marchiato un pezzo del caseggiato di fianco, e, a giudicare dalla frequenza con cui si aggirava - con il flacone di coccolino pieno d'acqua - la signora della casa confinante non gradiva queste cazzo di fiammelle.
Il telefono mi trilla nella tasca dei pantaloni, la luce esce allo scoperto quando lo prendo in mano e vedo: è l'avvocato.
E' facile questo cazzo di lavoro, prendo uno stecco - legno secco - gli dò fuoco e poi l'attacco allo stoppino, prima diventa nero e poi d'improvviso s'illumina di un fuoco doppio rispetto a quello iniziale dello stecco. C'è pure una signora - capelli corti/ricci e tratti sformati dal testosterone - che accende queste maledette candele; Lei - la signora - lo fa con l'accendino si sta ustionando tutte le dita e prova a lanciarmi cenni d'intesa, la ignoro e continuo con questo maledetto lavoro.
In strada una fila lenta di macchine sta attraversando l'incrocio per andarsi a depositare in qualche garage sotterraneo o nelle griglie del parcheggio dell'ufficio postale. L'erba spunta dalla fessura tra il marciapiede e l'asfalto della strada provinciale.
 
- L'avevo detto io, l'avevo detto! Non è mica un lavoro da fare quello, no… non è mica un bel lavoro da fare quello.
 
La donna col flacone parlava a mezz'aria, in una direzione astratta che abbracciava un raggio di spazio che poteva essere quello tra me e la donna con l'accendino incandescente. Parlava mentre provava a spegnere con preoccupazione smodata, un ciuffo d'erba che andava a fuoco proprio sotto la rete di cinta del suo cortiletto. L'acqua, inzuppata l'erba appassita dalle fiamme, spese la candela; la donna con l'accendino accorse a scusarsi per l'inconveniente.
Era gente educata quella, persone perbene, che non vogliono dare fastidio al vicino, che la macchina la tengono nel loro posto, che il cane lo fanno pisciare sotto gli alberelli che l'amministrazione comunale ha fatto piantare apposta.
L'avvocato riprova, ma anche stavolta gli rifiuto la chiamata; sta quasi per iniziare la lettura e io ho piazzato le ultime due candele. Lo stecco di legno è ancora ardente, ripercorrendo a ritroso il vialetto illuminato alla citronella lo lancio nel giardinetto della signora coccolino e spero che non gli basti l'intera scorta idrica del suo ammorbidente per spegnere le fiamme.
Ci sono quasi tutti quelli del paese, cinquanta, sessanta persone con la faccia raggrinzita dal tempo e le spalle curve dalla noia, i ragazzi attaccano subito dopo l'introduzione, il silenzio scende su tutto e su tutti.
Il mio telefono brilla:
SONO PASSATI IN UFFICIO

La voce non amplificata degli attori si rifrange contro le mura dello ospizio, le infermiere si appoggiano agli stipiti delle porte e ascoltano i versi mentre svuotano pitali di piscio e saturano l'aria con i loro disinfettanti miracolosi. Qualcuno tossisce ripetutamente accendendosi l'ennesima sigaretta, sembra che il mondo non sappia che nel cortile di questo asilo/ospizio una sessantina di persone si tengono strette solo con l'intento di dimostrare che i programmi pre-serali e il prime time Mediaset non sono un'alternativa. Un cane abbaia ripetutamente dal recinto in rete metallica sabbiata e zincata distraendo qualcuno verso le ultime file di posti a sedere.
Qualche candela si è spenta, l'odore acre della cera bruciata sugli stoppini sale su sino a spandersi tra la gente; sui muri dei lampi azzurri roteano velocemente, tutt'intorno la gente si alza e corre facendo cadere le sedie in plastica. Gli schienali si flettono come delle balestre e producono un suono sordo al contatto col suolo in cemento. Le urla e i rumori costringono gli attori ad ammutolirsi, negli occhi delle ragazze allo stupore si aggiunge la frustrazione di non poter continuare la lettura.
Non sento un cazzo, resto seduto al mio posto a piantare un momento nella mia cazzo di testa, sono l'unico seduto. Sono un tronco malato reciso, l'unico nel bel mezzo di una foresta, un albero pericoloso, infettante o semplicemente un criminale.
Una mano mi colpisce alla testa e mi costringe a chinarmi sino alle ginocchia, piegato in due come un gambero cotto alla brace, piegato a formare una virgola con me stesso, capisco d'aver rovinato la serata a tutti, qualcuno inizia a defluire, qualcun'altra si tiene il petto per lo spavento. Esco. 
Non c'è bisogno di coprirsi il volto per chiedere scusa.

 

1 commento:

fautographe ha detto...

ehi ci sono io qui dentro!
alla prossima ;) *elisa*